Le feste, private e pubbliche, per l’arrivo del nuovo anno sono un po’ dovunque, in Italia e nel mondo. Così come sono nella testa e nel cuore delle persone. La festa di fine anno, a differenza di quella di Natale che comunque è una festa religiosa (per chi la vive come tale…), per chi la festeggia è un momento ludico fine a se stesso, finalizzato al puro divertimento senza appartenenza a questo o quell’altro credo. E tutt’intorno a questa festa si articola e si moltiplica l’informazione su come sarà, su come è stato, con tanto di riassunto di cosa è stato e di come potrebbe essere, magari facendo parlare in proposito quelli che -da chi li interpella- vengono considerati una sorta di “opinion maker”, spacciandoli poi per la cosiddetta opinione pubblica.
Nei bar, nei negozi, all’edicola e nei luoghi di lavoro e delle proprie comunità è tutto un fiorire di “auguri”, “buona fine”, “buon inizio”, e così discorrendo.
Io sono un cosiddetto orso, e mai come quest’anno sono contento di esserlo: rifuggo da questi rituali e osservo con analiticità antropologica tutti coloro che si fanno o sono coinvolti in questo rito di massa. Che cerco di leggere, osservare e studiare ovunque, con qualunque idioma esso si manifesti, cercando di leggere ponti che -per esempio- si creano per l’occasione, e che mai nessun processo di pace tra popoli e culture belligeranti riuscirebbe ad erigere.
La domanda più semplice è: ma cosa avranno da festeggiare? L’aumento delle tariffe delle autostrade? I morti del traghetto che tornava dalla Grecia o quelli che galleggiano nel mare indonesiano dopo l’incidente aereo? Le vittime dell’Ebola in Africa occidentale o l’arrivo della prossima cartella esattoriale? Gli ennesimi morti nel canale di Sicilia dei disperati del cosiddetto mondo povero o le donne che non possono guidare la auto in alcuni Paesi arabi o i bambini morti mentre erano in una scuola fatta saltare nel nome di un Dio? Sarà che io intendo la festa come un momento di serenita’ in generale, a partire da me stesso, ma non mi sembra che si possa parlare di serenita’ diffusa. Quanto piuttosto di momentaneo blocco delle proprie speculazioni vitali per sperimentare, al pari di una sniffata di cocaina dopo aver assunto una pillola di Lsd, quanto il proprio essere sia in grado di affrontare vite parallele estraniandosi dal reale, e se questa estraniazione sia goduriosa o meno.
Solo con questa sospensione, se chi la mette in atto riesce ad estenderla anche al proprio inconscio, riesco a comprendere questo rito collettivo. Cosi’ come comprendo e non-attacco/infierisco su tutto cio’ che mi appare debole in ogni dove. Le debolezze, cosi’ come i riti di massa, poi si esauriscono: dopo l’orgia dei consumi, dei buonismi, delle disponibilità (quelli cosiddetti importanti che vanno al desco dei cosiddetti poveri, sono uno degli esempi più eclatanti), torna il ritmo da cui si è stati -più o meno- volontariamente assenti. In diversi dicono che un po’ di “stacco” fa bene. Un’opinione. Sta di fatto che dopo lo “stacco” si fa più fatica a “reinserirsi” e che -qui sta il gioco meramente consumistico- ci sono tanti metodi per farlo meglio, quasi fossero i rimedi per il jet lag dopo un viaggio in cui si sono scavalcati un po’ di fusi orari.
Sono questi i momenti in cui vedo i miei gatti e i miei cani e li invidio.
Vincenzo Donvito, presidente Aduc