Ero bambino quando mia mamma, dopo un breve ma suggestivo viaggio su di un trenino che partiva da Pisa e che attraversava la pineta pisana, portava me e mio fratello al mare sugli scogli di Marina di Pisa. Da lì tutte le mattine passava un venditore di giochi per bambini, assomigliante molto a Braccio di ferro, che urlava con una voce da vecchio mozzo di mare “Bimbi piangete che mamma ve lo compra”.
Sicuramente il sosia di Braccio di ferro non aveva fatto alcun corso di formazione sulla vendita e nemmeno sulla persuasione occulta e meno che mai sulla propaganda che rende vera una cosa falsa solo per il fatto che viene ripetuta più volte. Il buon Braccio di ferro ignorava tutto questo, ma intuiva che per poter accelerare la sua vendita doveva chiedere un aiuto ai bimbi perché gli facilitassero il rapporto con coloro che dovevano pagare: le mamme.
Probabilmente pensava: bisogna che io crei una situazione che agisca sull’emotività delle mamme e che le spinga a spendere un po’ di soldi, anche se non previsti, perché possano raggiungere due risultati positivi: il primo, il bimbo si tranquillizza e il secondo, loro stesse possono starsene a loro volta tranquille.
Questo mio preambolo mi serve come analogia con i fatti che possono succedere nel gioco del calcio e nell’applicazione del suo regolamento.
Partiamo da questo assioma: le scelte arbitrali che l’arbitro fa durante una partita di calcio si basano solo sulla interpretazione che l’arbitro stesso fa, in buona fede, del regolamento. L’arbitro si prepara alla partita con la speranza che le sue interpretazioni siano fatte con la stessa tranquillità dal primo all’ultimo minuto di gioco. Però pensare che questo possa sempre avvenire è solo auspicabile perché non possiamo dare per scontato che la freschezza di interpretazione dell’arbitro del primo minuto di gioco sia la stessa dell’ultimo, tenuto conto di tutte le variabili possibili nei novanta minuti della partita.
Dobbiamo ricordare che quando cominciò il calcio in costume a Firenze, forse il vero primo inizio del gioco del calcio, ci fu la necessità di scegliere una persona che controllasse la regolarità dei comportamenti dei giocatori durante la partita. Gli organizzatori del torneo fiorentino pensarono di dare sempre tale incarico ad un signore della nobiltà fiorentina, (cosa che succede tutt’oggi nelle rievocazioni del calcio in costume) non tanto per la sua eccelsa preparazione arbitrale, ma per il fatto che niente avrebbe avuto da guadagnare dalla vincita di una delle due squadre in gara risultando al di sopra delle parti e quindi affidabile alle compagini che si sarebbero dovute incontrare sul campo da gioco. L’accettazione del nobile signore della città come arbitro comportava nella sostanza l’accettazione della sua buona fede nel caso avesse sbagliato nell’arbitraggio. Quindi il verificarsi di uno sbaglio arbitrale sarebbe stato classificato da tutti come una possibilità fortunosa o no della competizione calcistica, una variabile possibile della partita del gioco del calcio in costume al pari delle variabili atmosferiche.
Per quanto oggi si possa e si debba discutere sulle scelte arbitrali degli arbitri è altresì vero che tutti gli appassionati di calcio debbano maturare l’accettazione dell’inevitabilità del vissuto situazionale dell’arbitro che può anche portarlo a fare un errore di valutazione.
Cosa, però, rimane stampato nella memoria dei telespettatori e dei tifosi?
Rimangono stampati i comportamenti dei giocatori e degli allenatori, anche se questi da bordo campo, che trasmettono la voglia di non rinunciare alla possibilità di influenzare l’arbitro. Non c’è giocatore e allenatore di calcio che non sappia quanto anche l’arbitro sia una persona, e quindi come tale fatta di muscoli e di cervello, ma anche di suggestioni.
Infatti l’arbitro, in quanto persona e per quanto possa essere preparato, non potrà mai estraniarsi dal contesto di quel determinato, unico e irripetibile momento della partita che dovrà interpretare.
In ogni partita di calcio il condizionamento che l’arbitro può subire è sempre dietro l’angolo di ogni azione determinata sia dal contributo dell’evolversi degli schemi di gioco delle due squadre che dal contributo del comportamento di ogni singolo giocatore. Non è detto che questi condizionamenti avvengano, ma possono verificarsi, per cui “tanto vale”, pensano gli addetti ai lavori, “dare una mano all’arbitro perché quest’ultimo scivoli verso una benevola interpretazione a nostro favore”.
Infatti non possiamo negare che ogni volta che l’arbitro fischia un fallo immancabilmente il giocatore che subisce il fallo reagisce, o con un immediato comportamento di non condivisione o con una plateale “protesta” spesso sostenuta con altrettanti comportamenti visibili del proprio allenatore.
Oggi noi, invece, non riuscendo ad accettare che l’arbitro possa sbagliare abbiamo pensato di ridurre la componente umana dell’eventuale sbaglio arbitrale inserendo, in alcuni particolari momenti della partita di calcio, uno strumento tecnico supplettivo che aiuti le scelte dell’arbitro: il VAR. Il VAR (Video Assistant Referee) è l’applicazione della moviola in campo, in pratica uno strumento che permette di eliminare la soggettività dell’arbitro a vantaggio di una oggettività indiscutibile.
Ecco perché oggi pensiamo che il VAR possa essere uno strumento utile ad eliminare l’errore involontario, perché permette di esaminare la momentanea e situazionale decisione arbitrare offrendo all’arbitro stesso la rivisitazione dei comportamenti tecnici dei giocatori in un tempo ripulito e su un piano molto più vicino ad una realtà condivisa.
Nel regolamento del gioco del calcio troviamo la maggior parte delle norme che chiariscono molto bene quali devono essere le interpretazioni dell’arbitro ed altre norme, anche se molto ridotte, che richiedono una valutazione situazionale dell’arbitro. Spesso queste ultime valutazioni dell’arbitro vengono commentate dagli addetti ai lavori con spiegazioni prevalentemente moralistiche orientate o al buon cuore, o alla giustizia morale, o all’opportunità, o alla pattumiera al posto del cuore, o all’insensibilità ecc.
Arrivo all’esempio che caratterizza nello specifico il titolo di questo mio scritto: “azione sotto porta in piena area, il difensore ostacola l’avversario attaccante e questo cade per terra”.
Cosa dice a questo punto il giornalista che sta facendo la telecronaca? Immancabilmente commenta l’azione di gioco con frasi che determinano un “metamessaggio”, ovvero un messaggio del messaggio, da cui si ricava che la viva protesta dell’attaccante per aver subito un fallo ne determina la verità del fallo subito, oppure la non protesta dell’attaccante ne determina la verità del non fallo.
Di fatto il telecronista rimanda la valutazione del fallo, e quindi l’applicazione del regolamento, non al regolamento stesso, ma alle proteste dei giocatori come unico segno di sincerità. Quindi se protestare trasmette che il calciatore è certo di aver subito il fallo, non protestare trasmette che il giocatore è certo di non aver subito il fallo. Chi in quel momento sta seguendo la telecronaca della partita rimane distolto da una interpretazione che vede l’applicazione del regolamento e conseguentemente portato anch’egli a dare importanza al comportamento dei giocatori.
Quindi il “metamessaggio”, del giornalista produce, con una semplice frase l’attribuzione della verità del fallo al comportamento del giocatore.
Se ne ricava, inoltre, che protestare fa sempre bene e che comunque può servire per “fare legna” perché l’arbitro, dopo aver subito una serie di proteste, può giungere alla stessa conclusione a cui è giunta la mamma al mare comprando il giocattolo al proprio figlio oppure può permettere, a chi ha fatto proteste inascoltate, di esercitare una spontanea paranoia persecutoria “l’arbitro ce l’ha con noi”.
Il problema che mi pongo riguarda sostanzialmente l’aspetto pedagogico, perchè sicuramente davanti alla televisione a gustarsi la partita di calcio non ci sono solo adulti, ma anche fanciulli e preadolescenti. Per questo mi voglio rivolgere ai giornalisti, sia a quelli che fanno telecronache che a quelli della carta stampata, perché si facciano carico di non sconfessare involontariamente l’arbitro.
Non farebbe male se i giornalisti stessi rivedessero anche il loro linguaggio perché, anche se alcuni termini che loro usano hanno di fatto un significato simbolico, non sempre nelle menti delle persone di tutti i ceti sociali e di tutte le età hanno lo stesso significato.
Inoltre, c’è anche da sottolineare che la cultura “chi non piange non puppa” spesso fa anche parte di molte scuole calcio sparse su tutto il territorio nazionale dove indirettamente si fanno passare messaggi in cui l’astuzia e l’inganno, doti utilissime al giocatore di calcio, posso naturalmente sconfinare nella scorrettezza e nel furto con il consenso silenzioso degli “adulti educatori”.
Non fa mai male ricordare che la cultura sportiva indica che i giocatori, ai quali viene fischiato un fallo, debbano mettersi in una posizione di attesa della decisione arbitrale con comportamenti di accettazione, di condivisione e di collaborazione che per di più potrebbero servire di conforto e di propulsione morale per la tranquillità dei tifosi più inquieti sugli spalti.
Personalmente ritengo, però, che nel gioco del calcio la mancanza di una logica sportiva condivisibile nasca dal fatto che generalmente, per non dire quasi sempre, il regolamento del gioco del calcio viene tramandato “da padre a figlio” e imparato giocando e quasi mai viene studiato, come si diceva una volta, “con le gambe sotto il tavolo”. Ammettiamolo, il regolamento del gioco del calcio non viene studiato per consuetudine e per abitudine, perché a differenza di altri sport, dove la non conoscenza delle regole specifiche non permetterebbe sia di giocare che di seguire la gara sportiva, nel gioco del calcio questo può non avvenire.
Nel gioco del calcio si può giocare e si può seguire una partita anche senza aver mai letto un rigo del regolamento calcistico con l’inevitabile risultato, però, che la mancanza di conoscenze rafforza solo “l’interpretazione moralistica”. Sarebbe interessante provare a fare un sondaggio sugli allenatori e giocatori delle maggiori serie italiane di calcio per sapere quanti di loro hanno realmente studiato il regolamento del gioco del calcio.
Non possiamo negare che i bambini per una loro forma di sana aspettativa vedono nell’adulto solo colui che può indicargli una strada moralmente giusta. Quando però i bambini vedono tradire le loro aspettative dagli adulti, ed in particolare dai loro idoli sportivi, finiscono con l’adeguarsi al contesto e convincersi che in fondo se dovessero anche loro, quando giocano a calcio, fare goal con la mano senza che l’arbitro se ne accorga non sarebbe una cosa irregolare, forse è Dio che lo ha voluto.
In sintesi dobbiamo convenire che i comportamenti dei giocatori, con l’aggiunta di quelli degli allenatori rafforzati da eventuali commenti fuorvianti dei giornalisti, finiscono con lo sconfessare le decisioni arbitrali e possono far prevale il pensiero: “se vinco con l’imbroglio faccio quello che avrebbe fatto il mio avversario”.
Le telecronache giornalistiche di oggi sono diventate, se vogliamo scomodare Marshall McLuhan, un insieme di messaggi caldi dove viene detto tutto e di più, portando chi ascolta a non trovare più dentro di sé domande di riflessioni e di confronto con la realtà.
Altra cosa era la telecronaca di Nicolò Carosio che dava solo informazioni con messaggi freddi che permettevano al telespettatore di fantasticarsi dentro di sé la sua partita. Storica è rimasta la frase “tiro…quasi rete” dove dietro quel “quasi” ci stava tutto un mondo che poteva indicare una diversa realtà, ma che indiscutibilmente riportava alla vera realtà.
Nicolò Carosio fu uno dei primi che acculturava i telespettatori all’apprendimento della contemporaneità dei sentimenti con un passaggio conflittuale fra quello che i telespettatori avrebbero voluto e quello che realmente, con una presa d’atto di matura consapevolezza, si verificava. L’indimenticato Nicolò Carosio aveva introdotto con la sua telecronaca i semi della cultura della pluralità con la quale dobbiamo fare i conti tutti i giorni della nostra vita.
Per concludere, dire che lo sport, attraverso tutte le sue discipline compreso il gioco del calcio, sia di per sé uno strumento educativo di evoluzione culturale non è sufficiente, perché lo sport dipende dalle persone che si occupano di sport e produce quello che le persone stesse vogliono che produca. Quindi non mi sento di dare per scontato che ai nostri figli basti praticare sport perché vivano un contesto di educazione e di apprendimento interumano. Perché lo sport sia realmente educativo ed un contributo per l’evoluzione sociale è indispensabile che il contesto sportivo sia formato da persone che sanno mettersi a disposizione dei valori dello sport. Lo sport fa bene quando è fatto bene. Dipende dall’uomo se lo sport è fatto bene, se possiamo aspirare ad avere uno sport non solo buono ma anche bello.
Salvatore Sica, esperto in Psicologia e in Pedagogia applicata allo sport