Mi chiamo Matteo Bottari, e se state leggendo questo libro, vuol dire che nonostante io sia stato ucciso a pallettoni in pieno viso tremilaseicentocinquantadue giorni fa, giustizia non è ancora stata fatta.
Ero un medico, primario di Endoscopia e professore all’Università di Messina. Quell’ateneo di cui sono certo, avrete sentito parlare in ben più di un’occasione, e non per elogiarne i meriti. La colpa della sua nomea è senz’altro attribuibile in buona parte al fatto che io stesso sono stato ammazzato per strada in una sera invernale come tante, proprio per accadimenti che lo riguardarono da vicino, ma che per strana ironia dei fatti, mai riguardarono me!
Pensavo che solo in alcuni stati arretrati dell’Est potessero succedere cose simili, ma mi sbagliavo; magari perchè io dal mio mondo aristocratico e colto non avevo mai sognato di affacciarmi su Verminopoli. Ora so che queste cose succedono anche a Messina, una volta città babba; e ora che lo sapete anche voi, il minimo che potete fare è battervi per la verità, e per la giustizia.
Il Verminaio di Gugliotta e Pensavalli ricorda certi film di Dario Argento, dove milioni di vermi brulicano sotto il pelo dell’acqua cheta. La Messina e la sua provincia (‘babba’ pure quella, dunque mafiosa fino al collo) di questo libro è proprio così: una specie di fossa delle Marianne dove s’inabissano verità e dignità, e dove si registra il più alto concentrato di delitti impuniti: da Graziella Campagna a Beppe Alfano ad, appunto, Matteo Bottari. Nomi da pronunciare il meno possibile per non disturbare gli appalti del Ponte sullo Stretto. Per questo, e solo per questo, non dirò che ‘Il Verminaio’ si legge come un romanzo: perchè forse è solo un romanzo. Il dubbio, dieci anni dopo, è che Matteo Bottari non sia nemmeno morto.