“AIUTARE CHI HA BISOGNO È UN DOVERE”. LA TESTIMONIANZA DI MARZIA RAPONI

Mi chiamo Marzia, ho 44 anni, lavoro come infermiera presso il Pronto Soccorso di Frosinone. Dal 2021 faccio parte del Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta – CISOM.

Ho sempre avuto in testa l’idea di fare volontariato e con l’inizio dell’emergenza sanitaria da COVID-19 ho fatto un passo avanti e sono entrata a far parte della task force per infermieri della Protezione Civile. In quel momento in me tutto si è fatto più chiaro, ho capito che probabilmente questa era la strada che dovevo intraprendere. È stato allora che ho conosciuto alcuni volontari del Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta – CISOM, che mi hanno parlato delle missioni a cui avevano preso parte, soprattutto quelle a Lampedusa.

Nel 2021 sono così entrata a far parte del CISOM e i miei primi impegni sono stati a livello territoriale, nel Lazio dove vivo, svolgendo attività di formazione ai farmacisti per quanto riguarda la somministrazione dei vaccini, dei tamponi e così via. Poi, sono andata sull’isola dell’Asinara, per il servizio di assistenza medica, una realtà complessa perché c’è solo un ambulatorio per la primissima assistenza, non hai un ospedale sul posto a cui appoggiarti, quindi il tuo compito, in caso di emergenza, è stabilizzare il paziente per poi trasferirlo sulla terraferma.

 

NON CHIAMIAMOLI MIGRANTI, SONO FRATELLI

Ho partecipato al progetto PASSIM 3 e sono stata inviata a Lampedusa per fornire supporto sanitario in mare sulle motovedette della Capitaneria di Porto e sulle navi della Guardia di Finanza, durante le operazioni SAR (Search and Rescue) nel tratto del Mar Mediterraneo tra l’Africa e l’Isola di Lampedusa, un vero e proprio corridoio umanitario che ci vede impegnati in prima linea a dare cura a tutte quelle persone che intraprendono viaggi della speranza su barche di fortuna. Per noi volontari non esiste la parola “migrante” ma solo “fratello”, quel fratello che viene da molto lontano e che non vediamo l’ora di abbracciare e di curare. Personalmente non mi fermo davanti a niente, se c’è bisogno di spostare un paziente per fare una RCP (Rianimazione cardio polmonare) su una motovedetta dove lo spazio è ridotto, lo faccio senza indugi. Ho scelto di fare questa esperienza perché voglio provare, nel mio piccolo, a dare speranza a queste persone. Se hanno la forza di affrontare tutto ciò che affrontano è perché hanno voglia e bisogno di cambiare la loro vita ed è giusto dargli una possibilità. Farei di tutto pur di salvare una vita umana. La voglia di aiutare gli altri viene da dentro, è un moto spontaneo. Quando mi accingo a uscire per un soccorso, tutto il resto si annulla, entro nel mio ruolo, mi concentro in quello che so fare e faccio in modo che vada tutto bene. Poi, quando torno alla base, mi fermo a riflettere, inizio a sentire la stanchezza ma anche le emozioni che mi hanno riempito l’anima.

 

L’IMPORTANZA DELLO SPIRITO DI SQUADRA

La mia prima missione a Lampedusa risale ad aprile del 2021. Sapevo di potermi aspettare un ambiente accogliente, condivisione di idee e obiettivi con gli altri volontari. In più quando sei lì ci sono altri attori coinvolti nelle missioni di soccorso, i comandanti della Guardia Costiera, il resto dell’equipaggio delle motovedette con cui noi collaboriamo. C’è un legame forte, c’è lo spirito di fare gruppo, è difficile spiegarlo a parole, alcune situazioni per comprenderle le devi vivere. In quel contesto siamo tutti “nella stessa barca”, è proprio il caso di dirlo, e l’obiettivo di tutti è portare in salvo più persone possibile. È un’emozione molto forte! A prescindere dalla divisa che si indossa, siamo uniti dallo stesso obiettivo, ognuno ha un ruolo specifico che assume il suo pieno valore cooperando tutti insieme. Ci sono stati anche momenti in cui ho provato paura, ad esempio durante un soccorso in condizioni di meteo avverso, quando i rescue si organizzano per gettare a mare i gommoni o indossano le tute per tuffarsi in acqua, i fari sono tutti puntati sul barcone. Ecco, lì la paura ce l’hai perché il momento è veramente critico. In quell’istante, il mio pensiero va alla tranquillità di casa, ai miei famigliari, a mia figlia; so che loro stanno bene e questo mi dà la forza. Ripeto a me stessa: ok, sono qui, metto in gioco la mia vita, l’importante è che a casa stiano bene. Ma quei momenti li superi anche grazie a chi hai intorno. Da sola non sarei nulla, non potrei essere Marzia in quel momento se non ci fosse la squadra.

 LA GIOIA DI ESSERE QUASI SALVI

Tra i vari soccorsi, ho prestato le cure a una donna incinta al settimo mese con minacce di aborto e a un’altra che aveva partorito il giorno prima. Durante il viaggio – che per loro non inizia nel momento in cui sono sul barchino in mezzo al mare ma inizia anche mesi prima – le donne sono vittime di violenze, ma nonostante tutto conservano la loro dignità, partoriscono e si prendono cura di quella piccola creatura. Nei loro occhi lucidi di gioia, traspare la speranza per un futuro migliore, per un domani più prospero di belle emozioni. In quegli sguardi, in quelle parole scambiate, in quegli abbracci donati ai più piccoli, c’è tutto l’amore, l’umanità e l’accoglienza di cui ogni essere umano ha bisogno.  

Ricordo un episodio piuttosto critico. Erano le 22.30 e tutte le squadre erano state chiamate per andare in soccorso di una barca con circa 215 migranti a bordo. Il mare era mosso, le onde alte circa 3 metri, all’orizzonte si vedevano lampi e si sentivano tuoni. I migranti erano impauriti, si gettavano in mare. Era un momento di forte concitazione, perché quando il mare è in tempesta i recuperi si fanno più impegnativi e l’essere umano che recuperi spesso è bagnato, infreddolito, sotto shock. Per quanto ci impegniamo affinché non succeda, a volte qualcuno muore. Quando viene lanciato l’SOS e noi partiamo, i migranti sono allo stremo delle loro forze, sono provati fisicamente e psicologicamente per un viaggio che dura da mesi, con il mare in tempesta, il freddo, senza mangiare, bere, seminudi e bagnati. Una volta saliti a bordo delle motovedette, sono emozionati, gioiosi, alcuni saltano, ballano e cantano per quanto sono felici e dobbiamo calmarli perché rischiamo seriamente di capovolgerci. La loro gioia traspare dagli occhi lucidi, si inginocchiano, ti abbracciano. Se il tragitto verso la terraferma è tranquillo e sereno, riesci anche a stabilire un dialogo con loro e, con un inglese molto basico, si raccontano, ti dicono che hanno frequentato la scuola o i college nel loro paese, che sono dovuti partire perché sanno che rimanendo a casa non avrebbero un futuro.

I bambini sono la parte più bella ed enigmatica delle missioni a cui ho preso parte. La cosa che più mi ha colpito è che non piangono mai. Che siano da soli, in braccio a uno sconosciuto o con i loro genitori, loro sorridono, non piangono mai, non si lamentano se hanno freddo o fame, nulla. È come se fossero abituati ad affrontare il peggio e quel vissuto in quel momento per loro è normale. È una cosa che mi ha lasciato scioccata e mi sono chiesta: ma è possibile, dopo questo viaggio lungo e pericoloso, che non abbiano bisogno di nulla? A loro basta solo un abbraccio per tranquillizzarli. I loro occhi sembrano parlarti, ti trasmettono grande felicità, non capiscono dove stanno andando o cosa stanno facendo ma sono felici e trasmettono la loro leggerezza anche a te.

 

Gli eventi traumatici hanno sempre bisogno di tempo per essere metabolizzati, con la mente vai indietro e avanti, ci rifletti fino a che ti dici che hai fatto ciò che hai ritenuto di fare, ti sei affidata alle tue conoscenze e alla tua capacità. Il ciclo della vita inizia con una nascita e purtroppo termina con la morte.  Quello che è importante è vivere nel miglior modo possibile, dare ogni giorno il meglio di sé, e nel momento in cui stai soccorrendo devi dare il massimo per permettere all’altra persona di vivere anche soltanto un giorno in più. 

 

AIUTARE CHI HA BISOGNO È UN DOVERE

Nella vita, ognuno di noi ha una propria missione e nel momento in cui affronti delle difficoltà e le superi, allora la vita ti sta insegnando qualcosa. Sono entrata nel CISOM proprio perché ho bisogno di trasmettere quello che fin qui ho imparato dalla mia vita, dal mio lavoro. Se so qualcosa e sono in grado di farlo, ho il dovere di aiutare l’altro. Non finirò di ringraziare il CISOM per tutto questo, perché mi ha permesso di dare agli altri qualcosa di me.