ANNA PALERMO: NESSUNO E’ DETENUTO PER SEMPRE. NELLA VITA SI PUO’ SEMPRE CAMBIARE

Attraverso l’esperienza dell’avvocato calabrese Anna Palermo, ESPERTA IN CRIMINOLOGIA E SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA, conosciamo l’impegno del volontariato, la cultura, l’educazione e il lavoro come “chiave” per la libertà.

La protagonista del nostro racconto dopo aver preso la maturità classica, nel 2020 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza (con una tesi in Diritto Amministrativo, dal titolo: “La piena cognizione nel processo amministrativo”. Votazione: 94/110). Ha iniziato fin da subito a lavorare come praticante avvocato presso rinomati studi legali della sua città e, dopo aver concluso la pratica forense è stata assunta presso un’azienda che si occupa di controlli antiriciclaggio.

Dal 2022: A.M.L. SPECIALIST – Addetta alla funzione antiriciclaggio.

Nel 2021 ha conseguito un primo master in: “DISCIPLINE ECONOMICHE, STATISTICHE E GIURIDICHE” (con una tesi in Diritto Pubblico, dal titolo: “Il potere e la responsabilità della Magistratura nei confronti della collettività”. Votazione 105/110) diventando DOCENTE DI DIRITTO (CLASSE DI CONCORSO A-46):

  • CONSEGUIMENTO DEI TITOLI DI ACCESSO ALLA CLASSE DI CONCORSO A-46 (SCIENZE GIURIDICO-ECONOMICHE);
  • CORSI SINGOLI “24 CFU”;
  • CORSO UNIVERSITARIO “BES – BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI”.

Secondo MASTER UNIVERSITARIO DI II LIVELLO IN “CRIMINOLOGIA CLINICA” (con una tesi in Psicologia e Psicopatologia Penitenziaria, dal titolo: “Non c’è rieducazione senza salute mentale: l’impatto del fine pena mai sulla salute psichica del detenuto ergastolano”. Votazione: 110/110) diventando CRIMINOLOGA CLINICA.

Dal 13/04/2023 è stata nominata “ESPERTA IN CRIMINOLOGIA E SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA” presso l’Ufficio del Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (Avv. Luca Muglia) – CONSIGLIO REGIONALE DELLA CALABRIA in via Cardinale Portanova snc, 89123 – Reggio Calabria (RC).

Anna quando si discute di cultura della legalità c’è sempre quello cui si legge negli occhi un “che noia che barba”. Invece poi scoppia un bubbone, uno scandalo sanitario o politico, e tutti a chiedersi come mai è successo? Che risposta si è data?

È vero, come spesso accade in Italia, solo dopo che si verifica un determinato evento si inizia prestare maggiore attenzione e, a pensare a cosa si sarebbe potuto fare per evitare un tragico esito. Mi duole dirlo ma, lo Stato italiano ha introdotto la c.d. “educazione alla legalità” o “cultura della legalità” solo dopo il biennio stragista del ‘92-’93.

Sappiamo bene che, uno dei valori fondamentali di ogni democrazia è la legalità… difatti, senza legalità non c’è giustizia e senza giustizia non può esserci democrazia. A mio avviso, “educare alla legalità” non vuol dire altro che diffondere la cultura dei valori civili e, con la parola “giustizia” si deve intendere il rispetto della persona, se le persone non riescono a comprendere il vero significato delle regole è ovvio che diventa difficile la loro osservazione e, nel momento in cui essa viene a mancare allora non si può più parlare di giustizia.

Spesso ci si riempie la bocca con la parola LEGALITA’ specie in quelle occasioni in cui si deve necessariamente fare “memoria commemorativa” (per esempio, ai due storici giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) ma, dopo questi eventi, solo in pochi riescono a tradurre il vero significato di legalità in comportamenti quotidiani, evidentemente ciò avviene perché alla base manca una cultura profonda della legalità. In ogni caso, pretendere legalità vuol dire promuoverla, ma anche sensibilizzare l’intera collettività e coinvolgerla, questa è – dal mio punto di vista – l’essenza della democrazia.

La storia insegna – e poco se ne impara – che in politica non è una faccenda semplice far coesistere istanza etica civile e organizzazione del consenso… Come donna impegnata per difendere i cittadini l’apprezzamento più gradito?

Dunque, ragionare su argomenti come fini o valori della nostra convivenza civile e/o su modelli alternativi di una società più giusta ed equa è un’impresa tanto attraente quanto difficile, pertanto, quando si parla di etica civile, politica e organizzazione del consenso – inevitabilmente – si aprono scenari di significato immensi, oltre ad una serie di concetti e pensieri legati ad ognuno di noi. Il punto principale su cui soffermarsi è costituito senza alcun dubbio dal rapporto fra le più importanti teorie politiche normative, le teorie della giustizia e la nostra – tanto amata e combattuta – democrazia. A oggi, le responsabilità della politica e, principalmente, degli uomini e delle donne che “fanno” politica sono, a parer  mio, al centro dello svuotamento civico della nostra democrazia, a ogni modo, non c’è nulla che escluda che un eventuale progresso in termini di etica civile ci possa consentire – in futuro – di giungere ad una più ampia “versione morale” del mondo.

Le generazioni precedenti ovvero, quelle dei nostri genitori e dei nostri insegnanti (che hanno vissuto un processo di “socializzazione politica”) ha consentito loro di elaborare un “tempo della storia” mettendo a fuoco non solo valori ma anche desideri e sogni rivolti al futuro. I giovani d’oggi invece, tendono a separare la vita individuale dallo spazio politico, non partecipano a scelte ideologiche e vivono al di fuori della storia.

Alla luce di ciò, è ormai palese che, stiamo assistendo ad un progressivo degrado della qualità della vita in generale, in particolar modo della convivenza civile, ecco perché, tentare un’impresa di etica razionale rimane comunque l’unica strada per un’efficiente convivenza civile e, nonostante l’uomo sia da sempre più propenso a scegliere la strada più facile da percorrere – ossia, priva di regole – bisogna combattere quell’istinto naturale di scappare dai problemi, di aggirarli o, addirittura, ignorarli. Pertanto, la mia meditata convinzione è che, un giorno (spero al più presto) si possa inquadrare al meglio una visione unitaria di valore etico e politico, la quale, in un mondo così “guasto” come quello moderno, possa in qualche modo orientarci a ciò che è “più giusto” accrescendo così una ragionevole speranza politica.

Le cronache giudiziarie raccontano che spesso la farraginosità delle procedure, che i magistrati devono applicare, «a volte lega le mani». C’è qualcosa da cambiare o va bene così?

La questione della lunghezza dei processi in Italia è uno dei problemi maggiori del nostro sistema giudiziario, in parte dovuto alla farraginosità delle procedure, all’inefficienza nella repressione e prevenzione del crimine, alla politicizzazione della giustizia e, in parte, alla mole dei procedimenti penali che vengono “scaricati” sulle Procure, ma queste sono solo alcune delle accuse che vengono rivolte al nostro sistema penale, il quale – ripetutamente – viene considerato come un “malato” da curare; si tratta di temi complessi (da anni al centro dell’attenzione) a cui ancora non si è trovata nessuna soluzione, al contrario, si assiste ad un continuo aggravamento degli stessi.

Di conseguenza, secondo il mio punto di vista, si dovrebbe utilizzare il diritto penale come diritto di ultima istanza, tra l’altro, basta frequentare (anche per un solo giorno) le aule di un tribunale per toccare con mano come, per esempio, la causa principale del mal funzionamento del nostro sistema giudiziario è la scarsa propensione al lavoro di chi l’amministra, perlomeno in ambito penale (il settore che conosco meglio) ed è stato dimostrato più volte che, i processi nella stragrande maggioranza dei casi vengono rinviati perché il giudice – semplicemente – quel giorno non è venuto, oppure perché la Procura non ha citato i testimoni, l’imputato non ha ricevuto la citazione a giudizio ecc. Insomma, uno dei nervi scoperti della magistratura italiana riguarda certamente la dedizione al lavoro e, finché la politica non troverà una soluzione, la nostra “macchina della giustizia” andrà sempre più a rilento.

“Coltivare i germi della legalità” partendo dall’esempio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E’ una missione impossibile?

È una missione possibile se si riescono a coinvolgere le nuove generazioni a riflettere sul significato della legalità, magari affrontando tematiche di volta in volta differenti, in maniera tale da attirare il loro interesse. Mi piace ricordare che, noi veniamo giudicati sulla base non della bellezza delle nostre parole ma della coerenza dei nostri comportamenti e, i giudici Falcone e Borsellino ci hanno lasciato l’esempio di una legalità “pura”, vissuta costantemente nell’impegno quotidiano, in un’epoca stragista di sangue e orrore, che colpì magistrati, forze dell’ordine, professionisti, politici, persone con ruoli differenti ma tutte unite nel valore della legge e del bene comune.

Nonostante i brutti presagi, entrambi, hanno deciso di portare a termine il loro compito, lavorando con passione e ferma convinzione fino all’ultimo istante, da veri servitori dello Stato. Quando si parla di Falcone e Borsellino non si può distogliere l’attenzione da tutto ciò che hanno fatto per noi, per il nostro Paese, due uomini coraggiosi che hanno sacrificato sé stessi per contrastare il crimine, due esempi di vita che, a distanza di anni rimangono ancora “vivi” ed hanno contribuito al – seppur tardivo – risveglio civile, nonché all’azione dello Stato nella lotta alla mafia. A oggi, la maggior parte delle persone ha compreso che lo Stato è in grado di vincere (in particolare dopo la cattura dell’ultimo boss di Cosa Nostra: Matteo Messina Denaro) e si è visto come la lotta alla mafia non si fa solo con la repressione, ma anche – e soprattutto – con l’educazione. Grazie al sacrificio di grandi uomini – servitori dello Stato – come Falcone e Borsellino dobbiamo ricordandoci ogni giorno di combattere per la legalità!

Come è stato il suo impatto con l’umanità che popola i tribunali?

Per quanto concerne l’impatto con l’umanità che popola i nostri tribunali va anzitutto evidenziato che, non si tratta di una realtà diversa da quella che si trova fuori, ma, nella maggior parte dei casi si tratta di un altro luogo “di sofferenza” esattamente come le carceri e (oserei dire) gli ospedali, dico questo perché, il reo che entra in tribunale o in carcere varca quasi sempre la porta di ingresso con una speranza ed è proprio in quella speranza che si racchiude il senso della giustizia. Naturalmente, ci si scontra con svariati problemi, uno dei più influenti è, a mio avviso, quello che riguarda la “spettacolarizzazione dei processi”, infatti, soprattutto negli ultimi anni, abbiamo assistito ad un progressivo aumento di vittime dei c.d. processi mediatici che coinvolgono il giudizio dell’opinione pubblica nell’indagare sulle circostanze degli eventi e nel trovare eventuali colpevoli.

Gli “spettatori”, il più delle volte, vengono bombardati da fake news che travisano la realtà dei fatti e ne alimentano la curiosità morbosa. Durante il processo mediatico il colpevole è sottoposto all’attenzione del pubblico, si specula sul suo passato, sui dettagli della sua vita privata, sulle sue abitudini… e, gli “innocentisti” (cioè, coloro che credono nell’innocenza dell’imputato o dell’indagato) si schierano contro i “colpevolisti”, che ne sostengono invece la responsabilità. Il problema di questi “processi” è che si svolgono in parallelo ai procedimenti giudiziari, al di fuori delle aule dei tribunali e mirano a trovare un soggetto cui attribuire le responsabilità dell’accaduto, insomma un colpevole da assicurare alla giustizia e che sia riconoscibile a tutti per le azioni compiute. Il processo mediatico può, purtroppo, interferire nel processo reale, cioè quello giuridico e, di conseguenza, viene meno il diritto ad un giusto processo (processo equo).

Se da un lato si cerca di sostenere l’impianto accusatorio costruito dagli inquirenti, dall’altro, si tende a fare informazione soprattutto nelle fasi di indagini preliminari e questo principalmente avviene per un motivo: il fatto che la durata dei processi in Italia è troppo lunga e quindi, il processo mediatico solitamente arriva in largo anticipo alle conclusioni rispetto al processo reale.

Che bisogna fare per rimettere ordine nelle carceri italiane?

Dunque, se si osserva attentamente la situazione in cui – a oggi – versano le carceri italiane ci si rende subito conto del fatto che, l’art. 27 della nostra Costituzione è probabilmente “lettera morta”, visto e considerato che, il sovraffollamento dei nostri istituti penitenziari è ormai all’ordine del giorno, oltre alle condizioni igienico sanitarie davvero raccapriccianti nelle quali versano i detenuti, insomma, si tratta di strutture che sono nella maggior parte dei casi incapaci di assicurare la “rieducazione del condannato”. Questa è, grosso modo, la situazione attuale dei nostri istituti penitenziari che continuano ad avere fin troppi problemi ormai da anni: dal sovraffollamento ai suicidi, da chi è in attesa di giudizio a chi ha problemi psichiatrici o forme di dipendenza ecc.

Nonostante i diversi tentativi legislativi e i richiami dalla Corte EDU (nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per i diritti umani per le condizioni degradanti dei detenuti) non è stato fatto nulla per risolvere queste gravissime problematiche.

Per quanto concerne il sovraffollamento (correlato anche al problema dei detenuti stranieri che si aggirano intorno al 35% del totale e – magari – una parte di loro potrebbe scontare la pena nel Paese di appartenenza) a parer mio, deriva dall’uso eccessivo del carcere non solo come misura punitiva ma anche cautelare, molti detenuti, infatti, sono ancora in attesa di giudizio o di riesame e, per questo motivo, potrebbero stare ai domiciliari (il carcere, nel sistema penitenziario del futuro, dovrebbe essere considerato l’ultimo espediente, l’extrema ratio del percorso dell’esecuzione penale!).

Negli ultimi anni abbiamo assistito inermi ad un vero e proprio “smantellamento” del sistema penitenziario italiano ma, una domanda sorge spontanea: di chi è la colpa?

In gran parte della politica che, da decenni, si ostina a non prendere in considerazione i problemi del carcere. Alcune drammatiche vicende sono spesso frutto di degrado e disagio (Santa Maria Capua Vetere, San Gimignano ecc.)… ebbene sì, non siamo di fronte a semplici episodi di violenza e caos, siamo di fronte alla rivendicazione della necessità di ristabilire l’ordine. Perciò, è davvero lunga la strada per risolvere le troppe difficoltà del sistema penitenziario, l’obiettivo dovrebbe essere quello di garantire tutti i servizi necessari affinché le carceri diventino realmente un luogo di rieducazione e preparazione a una nuova vita.

Dal suo punto di vista le priorità più urgenti?

Il ministro della giustizia Carlo Nordio ha parlato dell’edilizia penitenziaria come priorità assoluta per modernizzare e umanizzare gli istituti, ma, a mio avviso, i problemi da risolvere sono ben altri… come al solito si punta tutto sull’edilizia, va bene aumentare gli spazi per migliorare la qualità della vita, ma la priorità non può essere solo quella. In realtà, servono progetti d’inclusione sociale e bisogna investire su tutto il personale penitenziario, in particolar modo sull’area educativa. Chi opera in carcere si rende subito conto di come gli agenti di polizia penitenziaria sono anch’essi “detenuti” nel senso che, sono costretti a lavorare in condizioni insostenibili e spesso inaccettabili.

Per cui, una delle priorità non può che essere quella di attuare un modello di giustizia riparativa che possa consentire (anche attraverso progetti post-condanna) un reintegro completo e funzionale di chi ha commesso un reato e, bisogna investire di più nella formazione del personale, che non può essere addestrato solo sull’uso della forza. Queste sono solo alcune delle soluzioni/priorità più urgenti da attuare: arresti domiciliari frazionati (ad esempio nei fine settimana); percorsi rieducativi anziché detentivi; più libertà di movimento; più ore di colloqui e più telefonate; più lavori socialmente utili; liberare i bambini detenuti con le loro madri in carcere (in maniera tale da restituire il diritto a una vita dignitosa) ecc. Tutte misure che non ammassano decine e centinaia di persone in strutture malmesse e disumanizzanti, dalle quali escono in condizioni fisiche, mentali e sociali peggiori di come sono entrati. Ahimè, penso però, che quasi a nessuno interessi cambiare realmente le cose, c’è – di base – una colpevole inerzia da parte di tutti e non c’è ascolto su questi temi. In troppi chiudono gli occhi e il carcere viene visto come qualcosa di distante, che non appartiene alla sfera quotidiana delle persone.

Il carcere dovrebbe trasformarsi invece, in una “comunità educativa” (dato che rappresenta un “organo” del tessuto sociale) ma la società tende a rimuoverlo, a cancellare questa parte da sé stessa…

C’è una verità che ha imparato frequentando il carcere o il tribunale?

Una verità che ho imparato sia in tribunale che in carcere è: “NELLA VITA SI PUO’ SEMPRE CAMBIARE”.

Oggi sentiamo spesso parlare di “certezza della pena”, ormai è diventato un vero e proprio slogan ma non dobbiamo dimenticare che, la stragrande maggioranza dei detenuti è costituita da persone con condanne sotto i tre anni, non da ergastolani o condannati per mafia. La questione della “giusta pena” a seguito della violazione di una legge è un problema storico delle società fondate sul diritto, ma l’attenzione va spostata più che altro sulle responsabilità della società in generale e sulle cause strutturali della devianza, su cui occorre intervenire.

In un clima del genere, è necessario cambiare completamente il paradigma del carcere, che non può più essere considerato come un luogo chiuso, escluso dal resto del mondo, deve essere aperto verso l’esterno, se non si pensa al carcere in questi termini allora abbiamo poche speranze di veder cambiare le cose.

Mi spiace dirlo – e lo dico con tristezza – che, in linea di massima, il carcere è l’unico posto al mondo dove entri sano e ti aprono una cartella clinica e questo l’ho capito dopo tanti anni trascorsi a fare volontariato in carcere (grazie all’associazione LiberaMente OdV di Cosenza) e, a tutt’oggi, come esperta in criminologia e sociologia della devianza (presso l’Ufficio del Garante dei detenuti della Regione Calabria). In questi anni ho potuto capire che il carcere per come è impostato oggi fa male e fa ammalare, in più, bisogna andare oltre l’idea che il detenuto è solo il cattivo di turno che ha commesso un reato, perché quella persona un giorno rientrerà nella società e le statistiche dimostrano che, se vogliamo più sicurezza dobbiamo favorire le misure alternative al carcere che fanno crollare le percentuali di recidiva dal 70% al 19%. Parlare di carcere e di inclusione però, non porta voti, ecco perché se ne parla poco!

La voglia di riscatto è così impossibile per un detenuto?

No, non è impossibile, la voglia di riscatto “tiene in vita” il detenuto e, l’Ordinamento Penitenziario indica il lavoro in carcere come uno dei fattori principali per la “riabilitazione” del soggetto recluso. Il lavoro, infatti, durante il periodo di reclusione, serve a distrarre chi sta scontando una pena e a ridare quella speranza che ha perso (sentendosi “utile”).

Penso che la cosa più brutta per un detenuto sia quella di sentirsi uno “scarto”; perciò, il lavoro (soprattutto dopo la reclusione) diventa fondamentale nel percorso di reinserimento sociale del soggetto che ha già pagato il suo debito con la giustizia. Dunque, tutti hanno diritto ad una seconda possibilità ma, senza un supporto adeguato per i detenuti a volte è una missione impossibile. L’educazione/ri-educazione è sempre la via del riscatto.

Purtroppo, anche se viviamo in una società in cui si parla tanto di legalità, di giustizia e di voglia di riscatto le istituzioni spesso sbattono la porta in faccia a chi dimostra di essere cambiato/migliorato e di voler seguire la strada dell’onesto lavoro.

A questo punto, mi preme sottolineare l’importanza del ruolo svolto dalle associazioni di volontariato e del terzo settore nei luoghi di detenzione e nei percorsi di reinserimento sociale all’esterno, nello specifico, la mia associazione di volontariato penitenziario “LiberaMente OdV” (di cui faccio orgogliosamente parte) si è – da sempre – impegnata nel raccontare all’esterno, attraverso i volti e le storie di persone ristrette, realtà spesso sconosciute, ma che fanno parte della nostra comunità: storie di speranza, di occasioni perdute, di sofferenza, di pentimento e di voglia di riscatto!