Le buone intenzioni servono a poco. Ma sono meglio delle cattive azioni, soprattutto se violente. C’è una sola cosa peggiore degli sterili dibattiti che vanno in onda dopo una grave fatto di cronaca: non essere dalla parte delle vittime. Perché? Chi decide chi? Per saperne di più abbiamo incontrato i rappresentanti della Fondazione Libellula che ha come mission promuovere cultura contro la violenza sulle donne e la discriminazione di genere.
Equità, armonia dei legami, rispetto di ogni essere umano, attenzione alle piccole cose: questi i valori che li impegniamo a diffondere in ogni contesto. Perché chiamarla libellula? “Rappresenta trasformazione e libertà: trascorre parte della sua esistenza nel fango, ma a un certo punto emerge e impara a volare. È il simbolo del cambiamento che vogliamo realizzare. La capacità di osservare il mondo con occhi nuovi, per illuminare e contrastare in prima persona i suoi punti oscuri”.
La prima cosa che ho letto sulla vostra mission è stata: promuoviamo la cultura della bellezza per prevenire e contrastare ogni forma di violenza sulle donne e di discriminazione di genere. In sintesi è corretto sostenere – passatemi il termine – che la paura è donna? L’occasione fa l’uomo orco?
Per noi promuovere una cultura della bellezza significa diffondere educazione al rispetto, all’ascolto, all’accoglienza della diversità, al di là degli stereotipi, tutti elementi che rappresentano nella nostra visione gli antidoti alla violenza e alla discriminazione. Questo discorso vale tanto per le donne quanto per gli uomini, perché tutti e tutte noi cresciamo in un contesto che non ci insegna l’accettazione della diversità ma che al contrario normalizza modalità disfunzionali di relazione tra i generi basate in particolare sul potere e sulla disparità.
Nel nostro approccio tendiamo a non attribuire caratteristiche specifiche alle donne (la paura) o agli uomini (gli orchi) ma a sottolineare i condizionamenti che inconsapevolmente limitano la libera espressione di sé tanto degli uomini quanto delle donne. Solo acquisendo consapevolezza di cosa la società ci chiede di essere, fare o non fare in quanto donne e in quanto uomini, sin dalla tenera età, avremo la possibilità di scegliere come agire, decostruendo queste aspettative, e potremo appropriarci della responsabilità di non replicare atteggiamenti, espressione e comportamenti stereotipati e limitanti.
Come è possibile riconoscere i segni della violenza, anche quando non sono visibili?
La violenza è un fenomeno complesso, che assume diverse forme. Se quella fisica (strattonare, picchiare, colpire, ecc.) o quella sessuale (per esempio costringere ad un rapporto non consensuale o a pratiche sessuali non condivise) possono essere più facili da identificare, molto più complesso appare riconoscere la violenza psicologica (per esempio le svalutazioni quotidiane, la gelosia e il controllo, l’isolamento progressivo, ecc.) o quella economica (come impedire al/alla partner di disporre del proprio denaro o di acquisire autonomia per esempio tramite un lavoro). Occorrerebbe in questo senso un’educazione all’affettività e alla sessualità che parta dalla scuola e dalla famiglia in grado di “attrezzare” le persone alle relazioni sane, insegnando loro il rispetto di sé e dell’altro. Questo permetterebbe anche di decostruire pericolose visioni dell’amore e delle sue caratteristiche, per esempio il fatto che la gelosia sia un segnale di attenzione e solidità del legame o che l’amore significhi sacrificio di sé e fusione totale con l’altro/a.
Una volta instaurata una relazione violenta, questi sono alcuni dei sui segni “invisibili” sulla vittima che varieranno in funzione della durata e dell’intensità della violenza subita: attacchi di panico, ansia, difficoltà di concentrazione, umore depresso, irritabilità, disturbi del sonno, apatia, disprezzo di sé, sbalzi di umore, autolesionismo. Nell’ambito delle relazioni sociali abbiamo isolamento, perdita di efficacia e autorevolezza genitoriale, assenze dal lavoro, riduzione della proattività e dell’iniziativa.
Per riconoscerli occorre sensibilizzare tutti e tutte sul tema, come facciamo in Fondazione Libellula attraverso per esempio la formazione al ruolo di Ambassador, ovvero persone “sentinelle” capaci di intercettare nei diversi contesti, lavorativi e non, situazioni difficili e violente o tramite lo Spazio Libellula, luogo fisico sul territorio che si avvicina alle persone favorendo l’emersione del fenomeno.
Purtroppo spesso ad abusare delle donne sono i giovani. Qualcuno sostiene che è una generazione distratta dai mille interessi: afferrano il tempo e per questo sono così veloci nelle parole e nei rapporti e in quello che fanno con l’altro sesso. Al punto di non capire che non tutto è lecito. Immagino che avete tracciato un profilo…
I dati ci dicono che in realtà la violenza è un fenomeno trasversale alle età, ceti, livelli di istruzione. Certamente possiamo comunque cogliere un disagio nelle nuove generazioni, soprattutto la tendenza a fare cose che hanno conseguenze anche molto rilevanti, addirittura dai risvolti penali in alcuni casi, senza mettere in gioco consapevolezza e senso di responsabilità, accorgendosi delle conseguenze quando ormai è troppo tardi. Emerge una visione del divertimento come legato esclusivamente a sensazioni estreme e forti, tutte e subito, senza riflessione e consenso. Oltre a questo c’è un’esposizione precoce dei giovanissimi alla violenza, per esempio nel mondo virtuale che li anestetizza rispetto al fenomeno e alle sue conseguenze e che normalizza comportamenti aggressivi, violenti, poco rispettosi tra i generi, nelle relazioni e nella sessualità. Tutto questo mette in evidenza a nostro parare anche un vuoto educativo da parte degli adulti, spesso in difficoltà nel dialogo con figli/figlie sui temi della sessualità e delle relazioni. Da qui di nuovo l’importanza di lavorare trasversalmente sul fenomeno anche creando cultura e consapevolezza nei genitori.
Si dice che la vita di ognuno è segnata dal caso e dagli incontri. Perché è nata la libellula?
Fondazione Libellula nasce dal desiderio delle sue fondatrici, Debora Moretti e Marilù Guglielmini, di dare il proprio contributo al tema dopo aver ascoltato la storia di un uomo maltrattante, autore di femminicidio. Il racconto distaccato dell’uomo e le sue sembianze e modalità del tutto simili ai mille altri uomini che ciascuno/a di noi può incontrare nella vita e sul lavoro ha portato le due fondatrici a interrogarsi su quanto la violenza sia intorno a noi, su quanto possa essere diffusa anche nei contesti di lavoro che viviamo tutti i giorni e sul ruolo che le aziende possono avere per supportare chi sta vivendo una situazione simile. Nasce così nel 2017 il Progetto Libellula, progetto di responsabilità sociale di Zeta Service, che diventa poi Fondazione nel 2020. Ancora oggi continuiamo la nostra azione di sensibilizzazione e azione nei contesti organizzativi ma a questa abbiamo aggiunto progetti sul campo, come lo Spazio Libellula.
Le priorità che vi siete poste?
Le priorità che ci stanno sempre più guidando sono diverse e agiscono su vari fronti. Innanzitutto fare rete, tra aziende e tra aziende e territorio per creare una “massa critica” capace di massimizzare l’impatto dei diversi interventi e arrivare alle istituzioni, influenzando e indirizzando sul tema il contesto politico e sociale. In secondo luogo riteniamo centrale il lavoro di prevenzione, con interventi rivolti alle nuove generazioni e alle scuole. Infine prioritario è anche il coinvolgimento degli uomini perché abbiamo bisogno di alleanze tra i generi e di testimoni attivi di un modo di vivere la mascolinità libero da stereotipi e attento al rispetto.
Che cosa pensate quando vi concentrate su una campagna per un progetto?
Abbiamo un approccio consulenziale che parte sempre da un’attenta valutazione del contesto e dalla chiara definizione degli obiettivi che vogliamo raggiungere, che devono essere sostenibili per chi ci chiede un intervento. Ci guida anche l’idea di aprire uno spazio di riflessione, di messa in discussione di ciò che è ritenuto “normale”, sempre con un approccio positivo, gentile e determinato.
Non è un paradosso che oggi il problema violenza è stato purtroppo quasi normalizzato? A ogni vicenda che le cronache raccontano si assiste a un balletto di responsabilità che quasi aiuta chi è accusato di aver abusato di una donna. Non a caso di fronte a un fenomeno così allarmante, per produrre un profondo cambiamento culturale, Amnesty International Italia rilancia la campagna #IoloChiedo per creare consapevolezza sul concetto di consenso e aumentare l’accesso alla giustizia per le sopravvissute allo stupro in Italia. Il vostro punto di vista?
Purtroppo spesso il modo in cui la violenza è narrata da chi si occupa di informazione contribuisce a diffondere e sostenere il terreno culturale su cui la violenza si basa. Vittimizzazione secondaria, messa in discussione della posizione della donna, giustificazioni, mala informazione sul concetto di consenso sono molto diffuse. Quindi appare fondamentale agire anche sulla formazione di chi ha un ruolo e delle responsabilità nell’orientare o meno le posizioni e le riflessioni sul tema – come i professionisti e le professioniste della comunicazione.
Cosa chiedete alla politica?
Chiediamo azioni e investimenti concreti nell’attività di prevenzione, a partire dalle scuole, nell’attività di formazione a chi ha ruoli specifici sul tema (mondo della giustizia e delle forze dell’ordine, dell’informazione, dell’istruzione, ecc.), nell’applicazione senza pregiudizi e stereotipi del quadro normativo. Occorrono finanziamenti strutturali anche per sostenere i i progetti che agiscono sul cambiamento culturale, per far funzionare i centri anti violenza e in generale tutte quelle realtà del terzo settore che operano sul territorio.
La politica ha anche il potere di incidere sulla società anche in modo, per così dire, simbolico, attraverso l’esibizione di modelli di rispetto ed equità.
Al di là della retorica cosa non bisogna mai metabolizzare e giustificare?
Pur nella complessità di ogni situazione, è importante non accettare nessuna delle forme di violenza che abbiamo visto prima (psicologica, economica, sessuale e fisica). La violenza non è mai giustificabile ed è sempre responsabilità di chi la agisce. Ricordiamoci che non siamo sole e soli e che esistono tante forme di supporto che ci possono aiutare a capire cosa stiamo vivendo sin dalle prime fasi del rapporto. Non esitiamo a chiedere aiuto e ad informarci sul tema perché sarà più facile cogliere dall’inizio i segnali di una relazione disfunzionale e riconoscere ciò che è violenza.