Cristina Michetelli: Serve una seria riforma della Giustizia, che acceleri la durata dei processi e crei meno carcere

Cristina Michetelli, avvocato cassazionista, svolge la sua attività di assistenza e difesa prevalentemente nel settore penale. Da oltre 30 anni si occupa principalmente di reati contro la persona e il patrimonio, crimini contro la Pubblica Amministrazione, casi di responsabilità professionale medica, crimini finanziari e reati societari. E’ stata impegnata in numerosi casi di tutela di soggetti fragili nei reati cd. da “Codice rosso”, vittime in particolare di “stalking”, maltrattamenti in famiglia, violenza, abusi sessuali e femminicidi.

La Michetelli è inoltre una donna impegnata in politica essendo una Consigliera dell’Assemblea capitolina in quota al Partito Democratico. Consigliera delegata al Patrimonio e Bilancio alla Città Metropolitana di Roma Capitale e componente della Direzione Nazionale del Partito Democratico.

Avv. Cristina Michetelli, sovraffollamento e condizioni igienico-sanitarie estranee a un Paese civile. Come si rimedia a questa emergenza? Che bisogna fare per rimettere ordine nelle carceri?

Nelle nostre carceri registriamo un sovraffollamento medio del 132%, con punte anche del 190%, come a Regina Coeli, che, con una mozione a mia prima firma approvata all’unanimità dall’Aula, l’Assemblea Capitolina ha chiesto di chiudere. Con più di 62 mila detenuti su circa 47 mila posti effettivi, le nostre carceri sono bombe sociali pronte a esplodere.

Conti che nel 1991 i detenuti in Italia erano 31 mila, nel 1998 circa 47 mila. Oggi la carcerizzazione è aumentata nonostante sia diminuito il numero dei reati. Il Papa all’apertura della Porta Santa a Rebibbia ha chiesto un atto di clemenza. L’ultima amnistia risale al 1990, l’ultimo indulto al 2006. Non sarebbe una soluzione strutturale, ma un provvedimento che nell’immediato consentirebbe di fronteggiare questa gravissima emergenza. Ma poi servirebbe un patto dello Stato con gli enti locali, servirebbero risorse per creare strutture che non siano nuove carceri, ma dove possano trovare alloggio coloro che hanno le condizioni per non stare in carcere ed accedere alle pene alternative. Inoltre abbiamo attualmente circa 20.000 detenuti in attesa di giudizio e siamo i primi in Europa per carcerazione preventiva. Serve una seria riforma della Giustizia, che acceleri la durata dei processi e crei meno carcere. Aumentare il numero dei reati e allungare le pene sono riforme a costo zero dettate dall’emotività del momento, che non fanno da deterrente e non creano una società migliore o più sicura, anzi amplificano le situazioni di disagio che dovrebbero essere affrontate diversamente, in un’ottica più ampia da parte delle Istituzioni.

Dal suo punto di vista le priorità più urgenti?

Come detto, prioritariamente ritengo urgente ridurre la carcerazione preventiva, limitando l’uso della custodia cautelare in carcere, riservandola esclusivamente ai casi più gravi. Secondo è fondamentale aumentare le misure alternative alla detenzione per decongestionare le carceri e investire nelle strutture di accoglienza alternative per favorire il reinserimento nella società. E’ altrettanto importante potenziare i programmi di formazione e lavoro per i detenuti per agevolare questo processo e ridurre il tasso di recidiva. Inoltre vanno riviste le leggi e ridotte le pene per reati minori e non violenti. Altra questione urgente è sicuramente relativa alle condizioni di detenzione delle madri detenute con i loro bambini e delle donne incinte, argomento delicato, che certamente non può andare nella direzione indicata dall’attuale Governo nel Ddl sicurezza

Come è stato il suo impatto con l’umanità che popola gli istituti di pena?

Esercitando da più di 30 anni la professione di avvocato penalista, i miei contatti con il mondo carcerario sono avvenuti molto presto. Ho avuto anche l’occasione di svolgere progetti all’interno delle carceri, consulenze di orientamento e corsi di formazione ai detenuti e alle detenute. Il carcere è un luogo di sofferenza, dove stanno soprattutto i poveri, gli emarginati sociali. Il 90% dei detenuti sono persone che generalmente vivono sotto la soglia di povertà. Il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio, riservato solamente ai crimini più gravi. Nella gran parte dei casi sarebbe preferibile avviare percorsi di sostegno e di reinserimento veri di queste persone, per offrire loro quelle opportunità ed alternative che spesso sono mancate. 

Può raccontarci qualche storia senza ovviamente violare la privacy?

Posso raccontare la storia di Paolo (nome di fantasia) che fino a tre anni ha vissuto in carcere con la mamma, perché entrambi i suoi genitori erano detenuti. Paolo conosceva solo una realtà fatta di sbarre, di porte di ferro che si chiudevano dietro di lui e di polizia penitenziaria. Era un bambino “adultizzato”, come si dice in termini tecnici, un “piccolo uomo” che parlava alla pari con gli agenti, utilizzando con tutti, anche con me quando lo incontravo, il lessico della prigione. Poi con la legge Simeone/Saraceni, una grande legge di civiltà bipartisan, Paolo e la sua mamma sono potuti andare in detenzione domiciliare. Un principio di umanità che ora con il Ddl Sicurezza questo governo vuole eliminare.

L’unica cosa di cui valga la pena scrivere è il cuore umano in conflitto con se stesso. Penso che in una cella ciò sia davvero visibile. Il comandamento fondamentale, non uccidere, in carcere non vale: rinunciamo all’umanità in nome di una giustizia, spesso cieca. Il suo pensiero in proposito?

Dobbiamo tornare a essere umani e a rimettere al centro delle nostre leggi l’uomo, i suoi valori e le priorità. Frasi come “buttiamo la chiave” o “fateli marcire in una cella” appartengono a chi gli ultimi non li vuole nemmeno vedere, a chi pensa che la parola giustizia coincida con vendetta. Atteggiamenti, anche legislativi, che partono da questi presupposti incattiviscono la società e non creano persone migliori, né più sicurezza. Il fine di ogni provvedimento dovrebbe essere sempre e solo l’art. 27 della Costituzione, che, parlando al plurale di pene, ricorda come la pena non sia solo il carcere e come ogni intervento sanzionatorio debba tendere alla rieducazione e al recupero della persona.

Non è un paradosso che oggi il problema suicidi in cella è stato purtroppo quasi normalizzato? A ogni vicenda che le cronache raccontano si assiste a un balletto di responsabilità…

Nel 2024 nelle carceri italiane abbiamo avuto 88 suicidi, quasi uno ogni tre giorni, un record, e ad oggi 28 Gennaio 2025 ne contiamo 9 e ci assestiamo sulla stessa percentuale. I suicidi sono maggiori al momento dell’entrata e dell’uscita dal carcere. Il che significa che alla base c’è un sentimento di paura, che prende il sopravvento sulla riflessione, sull’elaborazione dell’errore, sul percorso, che i nostri operatori non ce la fanno a fronteggiare e supportare.

Infatti il rapporto numerico agenti penitenziari/detenuti, così come quello degli educatori/detenuti sono peggiorati entrambi e questa carenza incide su tutto questo.

Non ci può e non ci deve essere alcuna normalizzazione, è una vergogna per uno Stato che voglia dirsi civile. Non è accettabile che chi viene affidato alla custodia dello Stato perda la vita. I principi di legalità, di solidarietà, di responsabilità, impongono la necessità che lo Stato protegga la vita e la salute di tutti, in particolare delle persone detenute, che si trovano in condizione di minorata difesa, ovvero di inferiorità e di debolezza. E bisogna sempre ricordare che la pena è la privazione della libertà, non è perdita dei diritti civili, non è perdita della dignità umana, è rispetto della persona e del suo diritto alla cura fisica e mentale, anche del delinquente più efferato.

La voglia di riscatto è così impossibile per un detenuto?

La voglia molto spesso c’è, chi è ristretto in carcere sogna quello che sogniamo tutti, una vita serena con la propria famiglia, una casa dignitosa, un lavoro che consenta di vivere, la salute, ovvero il godimento di quei diritti di cui tutti siamo titolari. Purtroppo c’è chi ha la forza di costruire tutto questo da solo o con dei supporti, quali la propria famiglia e un contesto socio-economico favorevole, e chi invece parte indietro e non ce la fa a recuperare. Delinquere è sempre una scelta, ma in molte situazioni per chi è meno forte e ha meno risorse è più facile cadere. E compito dello Stato è non lasciare indietro nessuno e creare le condizioni perché le situazioni di disagio e di degrado vengano rimosse. Aver tolto il REI, o i sostegni degli affitti per i morosi incolpevoli, non prevedere un salario minimo per legge consentendo situazioni di sfruttamento, smantellare lo Stato sociale, tutto questo genera ulteriore pressione sulle persone più fragili.       

Come è possibile riconoscere i segni della violenza, anche quando non sono visibili?

Bisogna insegnare a riconoscere i segni della violenza, perché accanto alla violenza fisica esiste anche quella psicologica, che è più nascosta, più subdola, ma ugualmente lesiva. Spesso sono i giovani che non sanno riconoscerla e lì c’è bisogno di un maggiore intervento. Penso alle giovani ragazze, che possano ritenere corretti atteggiamenti dei loro coetanei quando vietano loro di uscire con le amiche, di vestirsi in un certo modo o di essere libere di muoversi dove e come  vogliano. A quell’età si scambia facilmente il possesso con l’amore. Così come penso al fenomeno del bullismo. A volte la sensibilità può essere strumentalizzata ed usata e non sempre chi ne è vittima se ne accorge subito. Bisogna insegnare a riconoscere i segnali e a chiedere aiuto. In questo un ruolo fondamentale deve svolgerlo la scuola.

Come si riesce a restare immuni nonostante quello che si vede?

Con tanto lavoro, mantenendo aperta la porta della umanità, ma anche mettendoci molta forza. Se tutti ci voltassimo dall’altra parte, parole come speranza, fiducia e riscatto perderebbero di valore. La politica è prima di tutto questo. Significa anche andare a mettere le mani dove nessuno vuole andare. Ognuno di noi può aggiungere un tassello per migliorare questa società.      

Prossima iniziativa?

Partiremo presto con il Forum Giustizia del Partito Democratico e poi parleremo molto di Sicurezza e di Giustizia sociale. Ma terremo assolutamente acceso anche il faro sulle carceri romane e cercheremo di portare l’Assemblea Capitolina a Rebibbia.