Fiorella Sanna nasce a Cagliari da padre sardo e madre siciliana, due isole che saranno sempre molto importanti nel suo percorso creativo. Diplomatasi al Liceo Linguistico Grazia Deledda di Cagliari, successivamente intraprende un corso di Scienze della Comunicazione presso la Facoltà di Lettere di Cagliari. Dal 2011 lavora come fotografa professionista, focalizzandosi sul reportage sociale e sul ritratto ambientato. La sua formazione comprende anche laboratori di recitazione e dizione presso compagnie importanti del panorama teatrale cagliaritano tra gli anni ’90 e 2000.
Affina le sue competenze attraverso corsi di dizione, lettura espressiva e stage con professionisti del settore. Esperienza in cui approfondisce la letteratura teatrale, la recitazione, ma anche la struttura scenica e la sua estetica che, più avanti, nella fotografia avrebbe contribuito a raffinare la composizione e la drammaticità nei soggetti fotografati. I suoi settori principali di specializzazione includono ritrattistica
fotografica per professionisti e artisti, campagne politiche, reportage sociale e di costume. Documentazione di eventi, fotografia architettonica, fotografia di prodotto e di catalogo, food. Ha collaborato con agenzie di comunicazione e pubblicità e ha svolto
servizi fotografici per eventi culturali, musicali e artistici.
Oltre al suo lavoro commerciale, si dedica anche a progetti personali, come la campagna fotografica “Uccidi anche me”, contro la violenza di
genere, una serie di ritratti e sovrapposizioni di volti di uomini e donne con la partecipazioni di artisti, musicisti, professionisti della comunicazione quali Fresu, Bollani, Bajani, Zanardo, Abate e persone comuni che venivano poi intervistati sul tema dalla giornalista Francesca Madrigali. Il progetto fu esposto, e seguito per quasi due anni in quanto sempre in divenire.
Precedentemente il progetto “Lavoro a quale costo?” legato alla documentazione delle manifestazioni dei lavoratori del call center Video
On line, quelli in occupazione nel carcere della Maddalena, la cosiddetta “Isola dei cassaintegrati”, e Rockwool, azienda della zona depressa del Sulcis, venne pubblicato in un libro con l’omonimo titolo, dalla fondazione Italiani Europei e dal comune di Roma e presentato all’Auditorium Parco della Musica della capitale. All’interno molti articoli di firme importanti della letteratura e del giornalismo italiano quali Emanuele Trevi, Michela Marzano, Silvia Avallone, Alfredo Reichlin. Approfondisce anche altri temi con serie fotografiche legate ai centri di accoglienza degli immigrati, lo spopolamento dei piccoli centri, le malattie legate al decadimento cognitivo.
La fotografia è la tua grande passione: quando è cominciato tutto questo?
Penso sia iniziato con le macchine automatiche Kodak degli anni 80, quando in foto venivo sempre arrabbiata perché la foto l’avrei voluta fare io invece di fare il soggetto. Scherzi a parte, ho iniziato a studiare fotografia a fine anni 90, ma da professionista ho iniziato solo nel 2011.
Quello che però mi ha dato l’energia per capire che il mio interesse era tutto per lei, è stato quando ho raccontato fotograficamente quello che accadeva durante una vertenza molto sentita nell’azienda in cui lavoravo da 8 anni. Vi era stata l’occupazione della sede e molte manifestazioni e iniziative. Sentivo la necessità di fare qualcosa in più, per sensibilizzare l’opinione pubblica e far conoscere quello che stava succedendo a tantissimi lavoratori.
Realizzai un ritratto ad ogni singolo lavoratore e lavoratrice nella sede durante l’occupazione, oltre 500, e poi pensai e realizzai un’immagine molto intensa da un tetto (i droni non erano ancora popolari), di alcuni di loro sdraiati a terra. L’immagine girò parecchio, furono stampati anche dei manifesti e distribuiti in tutta la città di Cagliari. Volevo far conoscere i lavoratori e ricordare che le vertenze non erano composte solo da numeri ma da persone, vite, famiglie, futuro.
Diventò per un po’ sul web ,ma anche sul cartaceo (L’Unità) un’immagine simbolo dei lavoratori che lavoravano per aziende e imprenditori che gestivano commesse per customer care, la cui gestione non era proprio limpida e trasparente. Dopo questa esperienza capì che volevo fare la fotografa come unica attività.
Il tuo talento è raccontare le cose con le immagini: la tua anima è più rivoluzionaria o inquieta?
Sebbene mi dicano spesso di essere una persona solare, credo di essere più incline all’inquietudine. La mia inquietudine, però, mi spinge costantemente a esplorare nuove sperimentazioni, a cercare significati più profondi e a superare la mia zona di comfort. Sono alla costante ricerca di ispirazione e di nuovi orizzonti creativi, di nuove sfide artistiche che sorprendano me prima di chiunque altro.
Ti sei occupata della sicurezza nei luoghi di lavoro, di violenza di genere, temi forti, scottanti. Che cosa, in particolare ti ha convinta ad affrontare queste tematiche?
Sono temi sul quale mi interrogo e credo sia una priorità di chi fa comunicazione e arte visiva occuparsene. Non ci si può esimere. L’esigenza di capire e di approfondire ha fatto si che studiassi il tema, entrando nelle dinamiche e rendendolo in immagini L’immigrazione, ad esempio, o la violenza di genere, sono temi forti e impegnativi. Si fanno delle scelte artistiche, si cresce insieme al progetto, e si impara sempre qualcosa in più sulla comunicazione e come gestirla. La scelta, poi, di parlare della violenza e della sofferenza senza doverle mostrare, è per me importantissimo.
La fotografia può fungere da punta avanzata del femminismo e contribuire a colmare il divario di genere delle nostre società?
Assolutamente! La fotografia può svolgere un ruolo significativo nel contribuire a colmare il divario di genere nelle nostre società in diversi modi. Può catturare e comunicare esperienze femminili autentiche, per esplorare le sfumature dell’identità femminile e portare in luce temi come l’uguaglianza, l’autonomia e l’autostima. Può sfidare i tradizionali stereotipi di genere, offrendo spazio per esprimere la forza, la diversità e la complessità delle donne al di là delle concezioni convenzionali. La fotografia può essere un potente strumento per creare consapevolezza su questioni critiche relative alle donne, come la violenza di genere, gli stereotipi sulla fisicità, l’accesso alle opportunità e i temi della maternità, contribuendo a generare dibattiti e cambiamenti sociali significativi. La rappresentazione visiva autentica delle donne attraverso la fotografia può ispirare altre donne e ragazze, fornendo modelli positivi e potenziando l’autostima e la fiducia in sé stesse.
Una fotografia per spiegare l’Italia?
Immaginare una singola fotografia che possa spiegare l’Italia nella sua interezza? Penso sia, se non impossibile, molto difficile, per la complessità ma anche per le contraddizioni sociali. L’Italia è così diversificata e complessa che una singola immagine non può rappresentarla completamente. Posso dire che io guardo la bellezza dei consueto e dell’autentico, dell’antico e del moderno, la storia che abbiamo alle spalle e la vitalità contemporanea, la cultura così ricca dell’Italia e che troppo spesso non valorizziamo. Raccontare con la fotografia l’interconnessione tra il paesaggio e il vissuto contemporaneo catturando la sua identità unica e la sua evoluzione nel tempo è quello che in genere mi piace fare.
Hai ricordi d’infanzia legati a fatti di cronaca?
Si, diversi. Ricordo i sequestri negli anni 80 abbastanza frequenti anche in Sardegna. Ricordo la sparizione di Manuela Orlandi. Ero ero in campeggio forse avevo 6 anni, fu un’ estate molto calda. E quasi dieci anni dopo l’attentato a Falcone e Borsellino. A maggio l’attentato a Falcone, la fine della scuola le ultime interrogazioni. Poi a luglio vacanze, come spesso capitava le passavo in Sicilia, dai nonni e zii siciliani. All’arrivo al porto di Palermo trovammo una sentita manifestazione contro la mafia di persone comuni, studenti, molti giovani. Mi colpì moltissimo. Qualche giorno dopo purtroppo esplose la bomba in via d’Amelio. Essendo ancora in Sicilia ricordo moltissime lenzuola bianche appese alle finestre nei giorni successivi, con scritte contro la mafia. Fu così che vidi anche con altri occhi, non solo quelli spensierati e vacanzieri ai quali l’associavo, questa bellissima isola che ho sempre amato e amo molto.
Si dice che siamo quello che siamo: Fiorella che cosa vuole dalla vita?
Vorrei poter continuare più a lungo possibile a trasmettere qualcosa con le mie immagini, soprattutto riuscire sempre ad entusiasmarmi per la fotografia, cercando costantemente nuove connessioni con le persone che incontrerò, ma anche con quelle che conosco da sempre. E poter soprattutto farlo da professionista, per garantire esperienza e professionalità. Purtroppo la professione del fotografo sta subendo una sorta di concorrenza sleale, soprattutto nel campo della fotografia di concerti, festival e produzioni, da parte di hobbisti, anche di buon livello, che facendolo per passione non chiedono compenso per quello che offrono. Non mi sento di biasimare nessuno, ma si deve essere consapevoli che così si boicotta una professione.
Qual è il tratto più difficile del tuo carattere?
Non saprei. Ciò che sopporto meno di me è non riuscire a prendermi mai troppo sul serio e questo mi mette sempre in una condizione di insicurezza.
Le tue immagini sono più ombre o luci?
Spero un buon mix di entrambi.
Poi ci sono in ognuno di noi le “zone d’ombra”… che cosa rappresentano per te?
Un modo per conoscere meglio me stessa e le mie reazioni alla sofferenza, alle delusioni, alla rabbia. Riuscire a gestire i ricordi e le novità.
Quale filosofia applichi nella tua quotidianità?
Qualunque cosa tu faccia, falla bene.
Fotografare il tempo è un atto che caratterizza il genere umano e che ci condiziona: se dovesse immaginare una mostra da quali scatti partiresti e come chiuderesti il cerchio?
Il tempo è un argomento che stimola molto il mio tipo di comunicazione e di fotografia. Il tempo non ha pietà, scorre qualsiasi cosa accada. I giorni, le stagioni non consentono pause ed eccezioni. Spesso nelle mie foto ci faccio i conti. Una mostra forse potrebbe partire da un bianco e nero, continuare con il colore e terminare con un bianco e nero.
Magari, perché no, con queste foto della mostra stiamo creando poesia, o almeno, speranza?
L’obiettivo è un po’ sempre quello, che nella fotografia ci possa essere una linea poetica unica, anche dove non sembra ci possa essere.
Prossima ispirazione?
E’ un lavoro su dei miei autoritratti, legato alla musica e agli stati emotivi della vita. Gli ultimi anni sono stati anni difficili, e ho dovuto ricercare dei nuovi stimoli e un nuovo senso nella fotografia. Cercavo ispirazione oltre i lavori commerciali e alla fine è arrivata, ho quindi iniziato di recente a lavorarci a modo mio e cioè fotograficamente.