Serve un termometro. Uno strumento per misurare il malessere dei cittadini verso le Istituzioni, in special modo verso chi amministra la Legge. Per ragioni diverse, talora fondate, serpeggia sempre una certa sfiducia nell’esercizio pubblico della giustizia, sfiducia alimentata dalla convinzione che alla fine ad avere la meglio sono sempre i potenti, quando sono trascinati in giudizio. L’attualità del tema diventa tanto più urgente nei giorni in cui si parla di violenza per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Nei dibattiti televisivi e sui giornali si chiede una “giustizia giusta” di cui ciascuno ha un’idea diversa secondo convenienza: come sia possibile che la terza gamba della democrazia susciti sentimenti tanto contraddittori e viscerali è abbastanza ovvio. Molto dipende dalla distorta convinzione di troppi, che l’operato della magistratura si possa valutare non secondo correttezza ma secondo convenienza, un po’ come si fa da tifosi con l’arbitro della partita di calcio: l’arbitro è bravo se dà ragione ai nostri. Questo non significa che un’istituzione non possa essere costruttivamente criticata, anzi. Si fa strada in politica la convinzione che quel che conta è “la capacità di risposta ai problemi della gente”. Le etichette, le antiche bandiere elettorali perdono d’importanza. Per approfondire il tema abbiamo intervistato l’avv. Marina Di Dio, che si occupa, prevalentemente, di diritto penale e, in particolare, dello studio di reati associativi, reati tributati, reati contro la persona e reati contro il patrimonio.
Avvocato, Scott Turow, padre del thriller legale in molti suoi romanzi sostiene che “il cliente, come la maggior parte dei clienti, dice di essere innocente…” succede davvero così nella realtà?
Ammetto che, nella mia ancor breve esperienza, molto spesso (rectius quasi sempre), il cliente dice di essere innocente o sostiene di essere stato “incastrato” e quelle volte che, invece, “ammette” le sue responsabilità tende a ridimensionare la gravità dei fatti.
Come si vive tra delitti, violenze, accuse, crimini in genere. Ogni giorno è una conquista ed è sempre un ricominciare, anche nelle cose più semplici, quotidiane. La sua storia cosa le ha insegnato?
La mia storia, anzitutto, mi ha insegnato a non demordere. Esercito la mia professione con grande passione e posso ben dire che si tratta della realizzazione di un sogno. Certo, non è stato facile e non lo è tutt’ora: il carico emotivo è molto pesante e talvolta è richiesto uno sforzo di “freddezza” non indifferente. Ma l’avvocato tratta “casi umani” e, per questo, certamente si scontra con ampie e varie difficoltà.
Le cronache giudiziarie raccontano che spesso la farraginosità delle procedure, che i magistrati devono applicare, «a volte lega le mani». C’è qualcosa da cambiare o va bene così?
Sicuramente c’è qualcosa da cambiare ed è logica conseguenza al mutamento della società.
Per gli avvocati il lavoro è fatto solo di parole: quelle che pronunciano in tribunale, o scrivono sui documenti, o leggono nei rapporti di polizia… Che altro aggiungere?
Parole, riflessioni, talvolta disegni, schemi, ricostruzioni…e perfino silenzi.
“Coltivare i germi della legalità” partendo dall’esempio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E’ una missione impossibile?
Non si tratta di missione impossibile, ma di una missione che richiede tanta, tantissima, fiducia nelle istituzioni.
È un’Italia che va avanti a forza di slogan e che non risolve né i problemi dei migranti, né i problemi degli italiani: e intanto le carceri scoppiano e i suicidi in cella aumentano…
Non è possibile pretendere soluzioni immediate ad ogni tipo di problema, ma è necessario che si continui a lavorare – senza sosta – per raggiungere soluzioni concrete e non meri “palliativi”.
C’è una verità che ha imparato frequentando il carcere e il tribunale?
Che, molto spesso, verità sostanziale e verità processuale non coincidono.
Che bisogna fare per rimettere ordine nelle carceri italiane?
Questa è una domanda da porre a chi ha gli strumenti necessari a rispondere.
Altro argomento drammatico è la violenze sulle donne. Molto spesso ci sono situazioni di sofferenza, infelicità, insoddisfazione, solitudine, tradimenti, incomprensioni. E non si sa quale di queste sofferenze, se quella fisica o quella interiore, sia la più grave. Come descriverebbe questo disagio sociale?
Che sia violenza sulle donne o sugli uomini, che sia perpetrata da un compagno, da un genitore, da un figlio, credo che alla base ci sia una fortissima carenza di valori fondamentali quali il rispetto, la comprensione, la comunicazione, l’amore verso l’altro e persino l’amor proprio.
Poi, il 25 novembre si diventa tutti più buoni, etici e solidali, quasi fosse il Santo Natale. Cosa le dà più fastidio: l’ipocrisia buonista delle istituzioni o l’indifferenza per il dolore delle vittime quando i riflettori si spengono?
Non si può semplificare l’argomento con una risposta che sia breve e concisa. Credo che gli eventi e le manifestazioni degli ultimi giorni dimostrino che si tratti di un tema molto sentito dalla comunità. Evidentemente, però, questo non basta e bisogna partire dalle piccole cose, dai gesti, dalle attenzioni.
La libertà in una parola?
Sentirsi sé stessi, nel rispetto delle regole.