Lucrezia Ercoli: L’uomo produce il male come l’ape produce il miele

La violenza è dappertutto e noi siamo inevitabilmente attratti dalla sua rappresentazione. Di questo bisogno si sono occupate la letteratura, l’arte, la filosofia e la psicanalisi. Il cinema e le serie tv hanno riconfigurato i codici espressivi con cui ci viene raccontata la crudeltà umana: l’accostamento conturbante di musica classica e brutalità nelle memorabili sequenze di Arancia meccanica o la corsa frenetica per la sopravvivenza in Squid Game sono solo alcuni degli esempi attraverso cui la filosofa Lucrezia Ercoli analizza il complesso rapporto tra il male e il suo doppio, la sua immagine. Che cosa vediamo realmente quando assistiamo passivi al dolore altrui, alle raccapriccianti fotografie che ritraggono le vittime di serial killer come Jeffrey Dahmer? Volgere lo sguardo altrove potrebbe solo temporaneamente alleviare le nostre coscienze. Occorre, invece, riflettere sul nostro stato di ‘consumatori di malvagità’ per trasformare la nostra sete di violenza in una volontà di comprendere, di fare i conti con l’abisso che abita ognuno di noi. Come scrive l’autrice: «Il viaggio nella crudeltà umana non ci consente di sfuggire a noi stessi.

Lo spettacolo del male – Lucrezia Ercoli – dal 19 marzo

Nel libro “Lo spettacolo del male” sostieni che la violenza è dappertutto e noi siamo inevitabilmente attratti dalla sua rappresentazione. Di questo bisogno si sono occupate la letteratura, l’arte, la filosofia e la psicanalisi: con quali conseguenze?

“L’uomo produce il male come l’ape produce il miele” scriveva William Golding, l’autore de Il signore delle mosche. L’arte e la letteratura ci consentono di guardare in faccia questa tendenza umana alla crudeltà e la voyeuristica attrazione per la sua messa in scena. Gli strumenti della filosofia e della psicanalisi sono indispensabili per confrontarci con questo “passeggero oscuro” che ci portiamo dentro, per decifrare questa pulsione distruttiva che sta al cuore della nostra esistenza, con cui facciamo fatica a confrontarci.

Lucrezia Ercoli, tra le tante cose che tu racconti nel libro mi ha fatto molto riflettere questa tua suggestione: Che cosa vediamo realmente quando assistiamo passivi al dolore altrui, alle raccapriccianti fotografie che ritraggono le vittime di serial killer? La risposta che ti sei data?

Lo spazio mediale nel quale viviamo ci costringe a un confronto costante con le immagini che mostrano lo strazio delle vittime di crimini efferati. Un vero e proprio spettacolo macabro che attrae il nostro sguardo, che alimenta un certo piacere perverso. Ci nascondiamo dietro l’empatia e la compassione, ma in realtà si tratta di un voyeurismo macabro, di un godimento legato alla curiosità di vedere a distanza qualcosa di proibito e di estremo, qualcosa che va oltre i nostri codici morali.

 

Davvero la realtà di certi avvenimenti supera di gran lunga la fantasia di un romanziere?  

Il confine tra realtà e finzione è sempre più sfumato. Il genere del “true crime” – che ha così successo tra trasmissioni televisive, podcast e saggistica – mescola fatti di cronaca e gusto per la narrazione. I fatti raccontati sono realmente accaduti, ma il modo di metterli in scena – con la voce giusta, la colonna sonora giusta, la costruzione narrativa giusta – li rende un perfetto intrattenimento. La realtà diventa “meglio di un film” se sappiamo metterla sotto la luce giusta.

 Storie brutte, drammatiche, tristi. In queste violenze fisiche e negli abusi ci sono situazioni di sofferenza, infelicità, insoddisfazione, solitudine, tradimenti, incomprensioni. E spesso non si sa quale di queste sofferenze, se quella fisica o quella interiore, sia la più grave. Come descriveresti questo disagio sociale?

 Nel libro rifletto sulla nostra tendenza a “mostrificare” e “disumanizzare” il colpevole, l’altro, il criminale. Ma è un modo per semplificare una realtà complessa e per mettere a distanza il male che, invece, prolifera all’interno di contesti sociali e familiari molto vicini a noi. Anzi, nelle società occidentali spesso la crudeltà non è immediatamente visibile e riconoscibile. Per dirla con Byung-Chul Han, siamo passati dalla società della repressione alla società della depressione.

 Fra colpevoli veri o presunti, ricostruzioni, plastici di case o garage, pareri in libertà e arbitrarie controdeduzioni, l’informazione scivola facilmente sul terreno dell’infotainment e approda non di rado alla landa dell’infoshow, dove la parte spettacolare prevale nettamente su quella del resoconto…che idea ti sei fatta?

Il terreno è sdrucciolevole. Da un lato, è difficile giustificare l’indecenza di un obiettivo che si avvicina troppo per cogliere i dettagli intimi della sofferenza altrui al solo scopo di alimentare la pornografia del dolore. Dall’altro, lo shock emotivo può servire ad aprire gli occhi su meccanismi violenti finora esclusi dal discorso pubblico. Dove finisce l’informazione e dove inizia lo show? Il confine è mobile e non possiamo definirlo una volta per tutte, dobbiamo rimetterlo in discussione ogni volta.

Molte ricerche certificano che purtroppo i più giovani hanno timore di non essere creduti nel denunciare atti di violenza. Vuol significare che il mondo degli adulti sta sbagliando qualcosa nel modo in cui ascolta e interagisce con loro?

 Sicuramente oggi quando si parla di violenza nella vita dei giovani e degli adolescenti, si parla anche della dimensione digitale, di una parte dell’esistenza che si svolge sui social e sul web di cui genitori e insegnanti si interessano (colpevolmente) poco. Sta a noi aprire finestre di dialogo autentico, in cui evitare la lezioncina pedagogico-moralista e la nota punitiva esemplare, due metodi che non hanno alcuna utilità sul lungo periodo.

Un tema che, da sempre, che sta molto a cuore a noi è quello della responsabilità individuale, della propaganda, del conformismo collettivo e dell’indifferenza che, spesso, anestetizza il nostro sentire e ci paralizza, impedendoci di agire per ‘fare la differenza’. Quanto è importante saper leggere le notizie che i giornali, le televisioni ci propinano come primo piatto nei loro notiziari?

Saper leggere, interpretare, filtrare le notizie che ci arrivano senza sosta credo sia un compito ineludibile e fondamentale. Non possiamo sottrarci al flusso mediatico né possiamo saltare fuori dal sistema dell’informazione nel quale, volenti o nolenti, siamo immersi. L’unica cosa che possiamo – e dobbiamo – fare è avere un maggiore controllo sulle nostre reazioni, avere una maggiore consapevolezza dell’utilizzo che facciamo di quelle notizie. In un mondo che ci chiede una presa di posizione istantanea, possiamo fare la differenza solo sottraendoci al piacere perverso di fare i giustizieri da tastiera con le vite degli altri.

Che cosa ci dovrebbe spaventare di più?

Siamo sempre impegnati ad additare il mostro del momento, in modo da trovare un capro espiatorio per le paure (e le frustrazioni) collettive. La cosa che dovrebbe farci più paura, invece, è proprio questa: prendere posizione solo ascoltando le nostre paure irrazionali.

La credibilità di uno Stato si basa sul rispetto della legalità e sulla capacità di garantire la dignità di ogni persona: possibile che una nazione civile, come l’Italia sia così mal ridotta?

 Nel libro parlo molto di carcere e di giustizia punitiva come di sistemi che rimettono in circolo la violenza che volevano eliminare. Sono convinta che una cartina di tornasole di uno stato di diritto sia proprio il sistema penitenziario che – invece di rieducare il reo, come prevede la nostra Costituzione – disumanizza guardie e detenuti. E su questo il nostro paese ha ancora molta strada da fare…

 La cosa più importante che hai imparato da questo viaggio?

 Comprendere che nello “spettacolo del male” contemporaneo siamo spesso vittime e carnefici allo stesso tempo e che dobbiamo imparare a diffidare delle narrazioni edificanti in cui siamo sempre dalla parte giusta.

 

LUCREZIA ERCOLI, nata a Macerata, è docente di storia dello spettacolo all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dal 2011 è ideatrice e direttrice artistica del festival di filosofia del contemporaneo Popsophia, che coniuga la riflessione filosofica con i fenomeni pop della cultura di massa. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Filosofia e Teoria delle scienze umane presso l’Università degli Studi di Roma Tre, dove ha collaborato con le cattedre di Estetica musicale e Filosofia Morale. Collabora con le trasmissioni culturali di Rai5 e RaiPlay. Fra le sue ultime pubblicazioni: Chiara Ferragni. Filosofia di una influencer, il Melangolo, Genova 2020; Yesterday. Filosofia della nostalgia, Ponte alle Grazie, 2022.