Mariangela Padovani, psicologa, iscritta all’Ordine delle psicologhe e degli psicologi del Veneto, numero 13372. Laureata in psicologia clinico-dinamica presso l’Università di Padova, nel 2020, con una tesi sul corpo vissuto nell’anoressia (“Tra identità e alterità. Fenomenologia del vissuto anoressico“).
“Mi interessa il corpo, dal punto di vista fenomenologico, ovvero il corpo vissuto, fatto di sensazioni, emozioni, il corpo sentito, non il corpo visto. Mi piace portare il corpo in psicologia, da qui il nome “Psicosomatologa”: penso che siamo tutti “psicosomatici”, ovvero mente e corpo, e che una loro scissione sia impossibile. Per questo anche in psicologia è importante non dimenticarsi del corpo, ma esplorarne il vissuto.
Mi interessano l’arte e la creatività: mi piace disegnare, fare collage, fotografie, e riuscire a unire anche questa passione con la passione per la psicologia. Penso che l’arte possa essere un importante strumento terapeutico. Infatti durante il mio anno di Servizio Civile presso il SerD di Vicenza, ho progettato e condotto un laboratorio creativo per i pazienti, con l’obiettivo di esplorare le proprie emozioni attraverso forme e colori e dare così voce a vissuti che fanno fatica a trovare parole.
Ho disegnato io stessa il mio logo, cercando di unire in modo stilizzato la psi di psicologia, di psiche, e una sorta di abbraccio a se stessi: la cura di sé, mente e corpo”.
Chi è Mariangela Padovani?
Sono una psicologa, specializzanda in psicoterapia fenomenologico-dinamica, ho 29 anni, sono di Bologna ma vivo a Vicenza da ormai due anni, dove ho da poco iniziato la mia attività clinica. Sono una persona creativa, attratta dall’arte, dai colori, dalla costruzione delle proprie narrazioni attraverso tutte le forme possibili (disegno, scrittura, corpo, movimento). Ho anche scritto un libro di poesie proprio sul mio percorso di crescita e di consapevolezza riguardo al mio corpo e alla mia ricerca di interezza nel dialogo mente-corpo (La donna bambina. Migrante, la psiche incontrò il corpo. 2022. Controluna edizioni di poesia).
Aiutare chi ha bisogno: quando è nata in lei questa mission?
La sofferenza psichica ha sempre suscitato una forte attrazione su di me, nel senso che mi ha sempre incuriosito capirne le origini, i significati e capire come fosse possibile uscirne, cambiarla, stravolgerla. All’inizio ne ero incuriosita più in senso astratto e teorico, poi ho capito che il lavoro che volevo fare era proprio applicare tutto ciò alla sofferenza vera e aiutare le persone a trovare e costruire gli strumenti per gestire, cambiare, conoscere le proprie ferite.
Cosa si prova a dare speranza?
Non so se quello che do è speranza, forse più consapevolezza, e non la do io, ma aiuto le persone a costruirla, aiuto a trovare in sé gli elementi per costruire e ri-costruire la propria vita, e forse in questo senso allora si può dire che do speranza, o fiducia, in quanto penso che ognuno possa trovare gli strumenti per stare bene. Cosa si prova a fare questo? Beh è molto faticoso e richiede prima di tutto un enorme lavoro su di sé, però è anche appassionante e generativo.
Quale tipo di disagio è figlio dei nostri giorni?
Siamo in un’epoca estremamente prestazionale, vengono proposte le regole per qualsiasi cosa, come mangiare, come vestirsi, come vivere le relazioni, e vengono proposte come un aiuto per il benessere ma allo stesso tempo come regole da seguire per essere perfetti, inondando di colpa chi non riesce a seguire il decalogo del benessere. Penso che questo uniformare tutti alle stesse regole e agli stessi tempi sia un grosso problema della società di oggi, impedendo alle persone di sviluppare la propria identità, e la propria “legittima stranezza” come direbbe Foucault. Non viene cioè lasciato spazio per essere se stessi, nonostante tutte le frasi motivazionali paradossali che obbligano a essere se stessi: non c’è spazio per l’errore
Qual è l’età migliore della nostra vita?
Penso che non esista un’età, un tempo, un momento migliore, prima di tutto perché ciascuno di noi è diverso, ciascuno ha i suoi tempi, non esiste una scaletta predefinita di tappe da raggiungere, anche se la società a volte ce lo fa credere. Qualche anno fa per esempio partecipavo come osservatrice a un gruppo di supporto, e una paziente diceva di essere stata male negli anni migliori, mentre ora stava meglio, questo mi ha fatto pensare: ma come potevano essere gli anni migliori se stavi male? Non erano i tuoi anni migliori, sono questi gli anni migliori, in cui stai bene! Sto per compiere trent’anni e già alcuni coetanei parlano dei bei tempi da ventenni, d’altro canto quando si ha vent’anni spesso si vuole crescere in fretta per rendersi indipendenti.. quindi si rincorre sempre un altro tempo, dimenticando che il vero momento è quello presente, l’unico in cui possiamo agire e fare qualcosa! È l’unico tempo che stiamo vivendo e che possiamo coltivare con cura.
Quante volte abbiamo sentito da conoscenti o amici: sono intrappolato in una vita che non ho scelto… Come si fa a coltivare una buona stima di sé e riconoscere e tutelare i propri diritti individuali, valori personali e spazi esistenziali?
Si parte dalla consapevolezza: prima di tutto è importante conoscere se stessi, le proprie emozioni, le proprie modalità, i propri valori, diritti ecc, altrimenti non è possibile o comunque è molto difficile riuscire a scegliere consapevolmente la propria vita e i propri spazi. Come si fa a essere consapevoli? Prima di tutto con la psicoterapia, che non dà soluzioni o risposte preconfezionate come quelle che si trovano sui social o sulle riviste, ma aiuta a trovare le proprie risposte, e questo è fondamentale. Poi ovviamente non c’è solo la psicoterapia, ci sono tutte le esperienze di vita, e un ascolto profondo di se stessi e delle proprie emozioni come guida per capire la direzione.
Le regole per la felicità?
Non ci sono regole assolute per essere felici, e prima di tutto dovremmo chiederci che cosa significhi essere felici, ma non in senso generale: cosa significa per noi, per la propria vita: in che direzione vogliamo andare? Cosa ci fa stare bene e cosa ci fa stare male? E cosa significa stare bene e stare male? Prima di avere risposte bisogna trovare le domande, le proprie domande, come guida nella mappa verso se stessi.
Perché ci sono persone che hanno paura dei sentimenti forti?
Più che dei sentimenti forse delle emozioni, perché sono le emozioni ad avere gradazioni anche molto forti e in rapido mutamento, i sentimenti sono più stabili nel tempo. Le emozioni forti possono fare paura perché sembrano incontrollabili, hanno un elemento di alterità pur essendo nostre. Stanghellini dice infatti che le emozioni, così come il corpo, sono l’alterità nell’identità: “le emozioni fanno parte dell’alterità che sfida la mia identità personale” (in Noi siamo un dialogo, Raffaello, Cortina, 2017): sono nostre ma non le possediamo e non le controlliamo, ci abitano in un certo senso. Ma d’altro canto sono anche ciò che ci rivela come stiamo, come sono le cose per noi, come una sorta di termometro, e allora in ogni emozione possiamo chiederci: che cosa mi sta dicendo? Dove mi sta portando? E invece che averne paura chiedere loro consiglio, perché è nelle emozioni che si rivela il nostro rapporto con il mondo e quindi la direzione verso cui stiamo andando
Purtroppo la violenza tra le mura domestiche non diminuisce?
No, perché nonostante i cambiamenti e progressi degli ultimi 50 anni, comunque la cultura patriarcale è molto radicata in noi: ovvero la cultura del possesso, di beni o di persone. Le relazioni vengono vissute ancora come possesso invece che come scambio. Fromm dice che nell’amore due esseri diventano uno e tuttavia restano due, cioè si ha una convergenza e un’unione, in certi momenti c’è proprio un senso di unità – la coppia del resto è qualcosa di diverso dalla somma di due persone – però allo stesso tempo devono rimanere due, ognuno con i suoi progetti, pensieri, emozioni. E il dialogo permette di mettere in relazione queste due alterità e trovare soluzioni e modalità di gestione degli eventuali conflitti. Ma se si vuole ridurre il due all’uno e non si sopporta l’alterità dell’altro, la sua libertà, l’altro è visto come un possesso e quindi non si può accettarne l’indipendenza, la non coincidenza. E questo capita più alle donne, che tradizionalmente sono sempre state dipendenti dagli uomini, un loro possedimento. Penso dunque che prima di tutto bisognerebbe lavorare su questo, sull’educazione all’alterità, al rispetto dell’altro e del suo consenso, e sulla gestione della frustrazione che questo genera: se l’alterità dell’altro e la sua non riducibilità all’identità mi dà così fastidio, che cosa mi sta dicendo questo fastidio? Come posso farci i conti senza costringere l’altro a diventare me?
Educando i ragazzi e i giovani si riesce ad arrivare anche dentro le famiglie. Può essere una soluzione?
L’educazione è fondamentale, soprattutto dal mio punto di vista è fondamentale l’educazione all’affettività, al consenso, al riconoscere le proprie emozioni, un’alfabetizzazione emotiva, per aiutare i giovani a costruire una vita consapevole. Forse le nuove consapevolezze dei giovani in qualche modo arriveranno anche ai loro genitori, li aiuteranno, se saranno disposti a lasciar andare credenze consolidate, a riflettere e a mettere in discussione alcune tematiche, ma penso sia difficile arrivarci in modo così indiretto, cioè le famiglie e le persone che le compongono hanno consolidato strutture di pensiero e di comportamento portati avanti da anni e, comprensibilmente, faticano a riconoscersi in nuovi valori e nuove narrazioni, pertanto penso che dovrebbero essere accompagnati anche loro in questo, progettando percorsi mirati proprio per le famiglie e per le singole persone che le compongono.
Che ne pensa dell’uso dei social da parte dei minori? Ma, soprattutto, chi ha il compito di educare è in grado di educare prima di tutto sé stesso all’uso responsabile della tecnologia?
L’infanzia e l’adolescenza sono fasi molto delicate della vita, soprattutto perché sono momenti di costruzione di sé, di abitudini, di credenze, di modalità di gestione di sé, delle relazioni, delle emozioni: mente e corpo sono intente a imparare quante più cose possibile e quindi tutto ciò che succede in queste fasi in qualche modo plasma il vissuto delle persone. I social sono strumenti che possono essere anche grandi risorse, perché mettono in contatto le persone, permettono di conoscere altre realtà rispetto a quella contingente delle persone conosciute nel proprio quartiere o nella propria città, tuttavia ovviamente contengono di tutto, e può essere difficile per un bambino o adolescente differenziare tra contenuti che nutrono e contenuti che invece sono dannosi o dicono falsità. Per questo penso che i minori non dovrebbero usare i social, e che il loro utilizzo debba essere fatto con più consapevolezza. D’altro canto è vero che anche gli adulti non hanno necessariamente questa consapevolezza e questa responsabilità, anche per loro può essere difficile distinguere, nel mare di contenuti e informazioni e stimoli, quali siano più nutrienti per sé. È difficile, ma anche in questo caso penso che la chiave sia prima di tutto la consapevolezza di sé, dei propri “meccanismi”, delle proprie emozioni e di cosa ci attrae, per capire cosa ci fa bene e cosa invece è per noi dannoso o fonte di sofferenza.
Uno dei mali della comunicazione in genere e dei media in particolare, è spesso la tentazione di apparire perfetti e di non fare mai errori. Forse dovremmo fare un po’ tutti un bagno d’umiltà?
Come dicevo prima, in questo momento estremamente prestazionale, i social sono diventati la vetrina perfetta in cui mostrare i propri traguardi, ma non solo, anche il modo in cui far entrare nella propria vita, nella propria casa, nella propria quotidianità gli altri per mostrare come si vive, fungendo da esempio da seguire: ma è davvero entrare nella vita dell’altro vedere come è la sua casa e come prepara i pasti o la sua morning routine? Cosa ne sappiamo dei suoi vissuti, di quello che sente, pensa, prova? Io penso che i social possano essere uno strumento molto utile e importante per diffondere messaggi e consapevolezze, però spesso si trasformano in modalità passive di assunzione di idee. Vedere più da vicino la vita degli altri invece potrebbe anche aiutarci a sviluppare un pensiero critico, in grado di non prendere per vero e assoluto tutto quello che vediamo. Quindi, ancora, partiamo da noi, da come stiamo, cosa cerchiamo e come ci fanno sentire le cose che vediamo, fidandoci delle nostre sensazioni prima che di quelle degli altri.
Chiudiamo con una confessione: sotto il “camice – corazza” batte un cuore di panna?
Jung diceva che il terapeuta ferito è quello che può guarire meglio gli altri: ogni terapeuta è prima di tutto una persona, con le sue ferite, i suoi traumi, le sue cicatrici. Deve però averci lavorato tanto, avere molta consapevolezza di sé e dei propri limiti, per poter davvero aiutare gli altri.