Come direbbe qualcuno: all’onore della ribalta subentrerà presto l’onere del compito: la sfida che attende Roberta Amato, attrice, scrittrice, artista, catanese è tutt’altro che agevole. Cerchiamo di individuare i problemi salienti con i quali la protagonista di questo racconto dovrà presto confrontarsi.
Se vuoi creare qualcosa che duri, piaccia, e si diffonda nelle piazze e nei teatri la prima missione per Roberta sarà politica: ridare prestigio, autorevolezza e ruolo alla cultura che per colpa di qualche ministro e assessore, ha perso smalto, diventando la cenerentola degli apparati statali e vassallo del favore per questo o quel padrino imprenditore.
Solo dopo aver ridato dignità al mondo della cultura, luoghi incantevoli come la Sicilia potranno chiedere più risorse. La sfida in questo caso è di natura culturale: pensare alla cultura come a un motore della società e dell’economia, non come a un lusso o a un costo.
Dal nostro punto di vista restituire prestigio al teatro, cinema, cultura in genere, significa anche promuovere il valore e il merito nei posti chiave, vale a dire mettere le persone giuste al posto giusto, al di là di ogni pregiudizio ideologico e nepotismo.
Così ci siamo ridotti, anzi, siamo “stati ridotti“. Questo il succo della storia.
Il palcoscenico è un modo di esprimersi e quello che vorremmo Noi è un dialogo, uno strumento in più per dire, in modo unico, e a voce alta: questa è la terra dei sogni, delle idee che diventano realtà. E senza cultura e legalità resterà solo la polvere.
Roberta Amato artista, scrittrice, attrice, orgogliosamente catanese: cos’ha di speciale la sua città?
Catania è una benedizione e tutto il contrario. A vent’anni credevo non vi fosse posto migliore al mondo, 15 anni dopo sto, per forza di cose, frenando i miei furori giovanili. Abito in zona Pescheria, la zona più vivace e frizzante della città, piena di locali e ristoranti dove ci puoi trovare l’universo mondo. Orde di turisti affamati ed entusiasti, festanti, allegri e felici della loro meta. Sono quelli che delle città ne prendono il meglio. La vivacità, il buon cibo, la Catania ruffiana e proba, ricca di alternative, che non si ferma mai, che vince ogni record italiano, con l’aeroporto Fontanarossa che doppia Fiumicino, Catania che ne parla la BBC e Le Figaro, Catania sold out, Catania tutto esaurito. Che chi ci vive non se lo spiega. Non se ne capacità. Ma tant’è. Citando una bellissima canzone dei Tiromancino: ” e crolla la fortezza del mio debole per te”. Ecco, questo è il sentimento che provo per la mia città. Un antico, fortissimo amore, che crolla sotto il peso delle delusione.
Ricorda qualcuno in particolare dei personaggi che ha conosciuto lungo la strada?
Nessuno in particolare. Sono grata a giusto due, tre persone in croce per la possibilità che mi hanno dato in questi anni di mettermi alla prova come attrice e come drammaturga laddove sembrava impossibile per me. Non ho maestri a cui devo qualcosa. Non ho “patrozzi” e “madrine“.
La cultura nella terra della mafia cosa può cambiare?
Ho scritto uno spettacolo che si chiama “I Moschettieri” dove cerco di dare una risposta a questa domanda. E sottolineo “cerco” perché il problema è annoso e non di semplice risoluzione. Io penso che cultura e legalità debbano camminare insieme. È molto difficile che la prima attecchisca laddove manca la seconda. Bisognerebbe prima prepare il terreno e poi seminare. La cultura, secondo me, segue le leggi della terra. Metafora agricola, chiamiamola così. Prepara il terreno, pianta, coltiva, raccogli. Ma lo puoi fare laddove la terra è ricca e generosa. Non si può pretendere di portare cultura e bellezza in territori marci e corrotti da secoli. Devi sanarli. Con la legalità. Poi, ma solo poi, puoi pensare di portare un’alternativa alle brutture e all’asfittico monopolio mafioso. Questo è quello che penso. Bisogna bonificare, sì. Termine tornato di moda ultimamente, ahimè, per altre circostanze.
Una curiosità: per Roberta quali sono stati i dieci libri che le hanno cambiato la vita?
Su tutti Gli indifferenti di Moravia. Soffocare di Palahniuk, Lettere a Milena di Kafka, Tristessa di Jack Kerouac, l’Amante di Marguerite Duras, il mestiere di vivere di Cesare Pavese, Siddharta di Hermann Hesse, un qualsiasi libro di poesie di Anne Sexton, Un uomo della Fallaci, la nausea di Sartre.
Continueremo a leggere come abbiamo sempre fatto, cioè tenendo in mano un libro stampato su carta, con tutti i vantaggi e gli svantaggi della sua materialità, o presto diventeremo tutti lettori digitali, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso?
Non so cosa faranno gli altri, io so cosa farò io. Per sempre. Comprerò un libro vero, di carta, in libreria. Scriverò con la penna. Viva il cartaceo. Viva le penne. Sono una trentacinquenne vecchia e obsoleta, lo so. Non esente da critiche. Ma sono fatta così. A Catania si dice “nchiajata“. Cioè poco abile a fare certe cose. Ecco, io con le tecnologia sono nchiajata.
Periodicamente associazioni come Save the children e ActionAid denunziano che ci sono molte le famiglie che non possono permettere ai loro figli una istruzione completa. E così chiedono alle Istituzioni di sostenere queste battaglie affinché la lotta all’analfabetismo e la riduzione della povertà educativa abbia successo. Cosa proporrebbe per migliorare la qualità dell’istruzione?
Ministri dell’istruzione capaci, tanto per cominciare.
Che educazione ha ricevuto?
Sono figlia di un operaio e di una casalinga. Abbiamo sempre vissuto nei quartieri popolari. Abbiamo ricevuto un’educazione non rigidissima, ma consapevole. Figli cresciuti nella semplicità forzata delle nostre tasche, ma non per questo infelici. La domenica c’erano sempre i pasticcini sulla tavola. Non mancavano mai. Onestà nonostante il degrado che c’era intorno a noi. La sacralità della scuola e dello studio, la divina arte del contentarsi di quello che si ha. Musica tanta, tanta musica. Risuonava H24 in una casetta modesta di via Carlo Forlanini, a Catania. La più disparata. I miei genitori sono stati la mia salvezza. Mi hanno indirizzato verso il meglio che si potesse raggiungere nascendo ai Cappuccini. E non è stato facile, immagino.
Favole, bambole, teatro?
Da bambina le favole mi annoiavano. Preferivo i racconti dei nonni. Non ho mai guardato nemmeno i grandi classici Disney con principi e principesse. Stessa cosa per le bambole. Non ne ho mai chiesta una. Giocavo a fare le imitazioni, facevo in salotto i balletti di Heather Parisi e Lorella Cuccarini. Cantavo tutto il giorno, il sogno era Sanremo. Lo è ancora adesso. Ho sempre una piccola speranza di scendere, prima o poi, da quelle scale. Come conduttrice. È sempre forte in me questa cultura italo- pop. Sono stata una bambina atipica. Infatti non ero molto benvoluta. Già c’era in me, in nuce, il germe dell’entertainment.
Che luogo di vita è il palcoscenico?
Per me il palcoscenico è comfort zone. L’unico posto in cui mi sento giusta. Il mio posto nel mondo. Una volta scesa cominciano tutte le mie paranoie. Se, come è capitato, non ho occasione per molto tempo di salirci su sono guai per me. Ahimè.
E com’è stato l’esordio in pubblico?
La prima volta è stata in un teatro occupato. Un progetto in residenza. Dove tutti gli attori cooperavano per la pulizia degli spazi, la messa in scena, la promozione dello spettacolo e la riuscita dello spettacolo lavorando sodo. Io avevo un ruolo piccolo, ma molto bello. La signora dei sei personaggi in cerca di autore di Pirandello. Inutile dire che da quel momento in poi per me fu consacrazione di un amore che conoscevo solo in potenza. Da quel momento in poi ho deciso che volevo fare l’ attrice. Fu proprio lì, in quel momento.
Se volessi scoprire l’anima del teatro, respirare l’atmosfera, da quale luogo dovrei partire?
Napoli. Mi piacerebbe, un giorno, ripartire da lì. È un pensiero che mi frulla in testa da molto tempo. Una città che mi somiglia tanto. La più bella, per me.
Una cosa che mi ha sempre incuriosito è l’impatto con un copione: l’interpretazione di un personaggio, impersonare la vita di un’altra, quanto è difficile snaturare se stessi?
Proprio in questo momento mi ritrovo a fare un personaggio che ho sempre desiderato fare e di cui pensavo di conoscere tutto. Mi sentivo sicura e pronta per affrontarlo. E invece no. Perché quando cominci a studiarlo in profondità escono mille particolari, altrettante sfumature, innumerevoli accidenti che non avevi mai preso in considerazione. Li trovi tra le righe, tra le espressioni ormai consuete che credevi di aver afferrato in toto, nelle parole ben precise che l’autore ha scelto con cura. Ogni personaggio è una manìa. Dal momento in cui cominci a prepararti per affrontarlo ogni cosa che fai anche nel tuo quotidiano è vista da te persona e da te personaggio. È vivere in due. Per due. Al mercato, alla posta, al parco, al bar. Tutto doppio. Per due.
Non ha mai pensato che in fin dei conti la cultura, il teatro, il cinema sono un brulichio di persone, un viavai di professionisti e comparse, gente comune, che entrano ed escono da due ingressi agli estremi che di fatto rappresenta la nostra vita?
Penso che gli operatori culturali siano linfa vitale di un paese. Quando trovano il loro spazio, quando vengono tutelati, valorizzati, aiutati e messi nella condizione di svolgere il loro lavoro partecipano in maniera attiva al benessere di un’intera nazione. Sono figure essenziali, non di contorno come spesso si tende a credere. Perché non di solo pane vive l’uomo. Una collettività aperta a un vivace scambio culturale è una collettività consapevole, sana, equilibrata, senziente, in pace col mondo. Per questo mi auguro che artisti e fruitori tornino a incontrarsi a teatro, al cinema e in ogni luogo di cultura perché è così che si aiutano vicendevolmente. È proprio un benefico do ut des. Un circolo virtuoso. Il senso di ogni forma d’arte. Artista e pubblico si nutrono a vicenda.
Tutto finisce: una storia d’amore, la vita e anche una serie Tv che ci appassionava moltissimo. Come pensa sarà ricordata una volta che cala il sipario?
Ho pensato a lungo al mio epitaffio. Sono arrivata a una conclusione più o meno soddisfacente.
“Era una brava ragazza. Mangiava sempre“.