Possiamo trasformare le nostre città in luoghi più sani e vivibili? E’ la sfida lanciata da Sport Civico in sette città italiane. Ne parliamo con E. Dorato…
Nella settimana in cui lo sport è entrato ufficialmente nella Costituzione italiana, torniamo a parlare di come non sia solo sudore e competizione, ma anche una chiave per immaginare luoghi, relazioni e società diverse. Pensare alle nostre città come grandi campi di gioco in cui la nostra partecipazione attiva può fare la differenza: è questo l’approccio promosso dall’Uisp con “Sport Civico”, il progetto che promuove lo sport sociale e per tutti nei processi di rigenerazione urbana di sette città italiane. Le nostre città non devono essere solo luoghi dove vivere, ma luoghi dove vivere bene e il connubio fra sport, ricerca scientifica e urbanistica può permetterci di incidere in questo senso. Ne abbiamo parlato con Elena Dorato, architetta-urbanista, ricercatrice in progettazione urbanistica presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara e membro del comitato scientifico di Sport Civico.
Cominciamo con una domanda facile (si fa per dire): come viviamo in città?
“Facciamo una premessa: in questo mondo globalizzato, quando parliamo di città questo termine può assumere così tanti significati che quasi viene svuotato di senso. La maggior parte delle volte in cui pensiamo “alla città”, abbiamo in mente i contesti che conosciamo e abitiamo. Io, ad esempio, che vivo in Emilia Romagna penso subito alle città medie, i capoluoghi di provincia dove si concentra la maggior parte della popolazione (Bologna, Reggio-Emilia, Ferrara). Se però ci spostiamo in un contesto diverso a livello europeo o mondiale, le cose cambiano: le tipologie di città si moltiplicano e per questo è necessario caratterizzare, aggettivare le città quando ne parliamo.
Non c’è una risposta univoca dunque ma, fatta questa premessa, è chiaro che diverse città offrono una diversa qualità di vita a chi vi abita. Se in generale, al netto di situazioni critiche specifiche (ad esempio, la prossimità a grandi comparti industriali), una cittadina italiana media offre buone condizioni per il mantenimento della salute dei suoi abitanti, nelle metropoli la questione cambia ed emerge più forte il tema della salute legato alle disuguaglianze. La ricerca scientifica sta dimostrando sempre di più il forte legame fra status socioeconomico della popolazione e condizioni di salute, quindi “quanto sono ricco e dove vivo” sono fattori che influenzano moltissimo le nostre condizioni di salute. In una grande città, se sono benestante, vivo in centro, mi sposto a piedi o in bicicletta, con giardini, parchi e tutti i servizi a disposizione. Se vivo nei comparti di edilizia residenziale pubblica di una grande periferia, senza servizi né spazi pubblici di qualità vicino a me, la mia qualità di vita sarà più bassa e la mia salute peggiore. Insomma, è evidente che il contesto urbano con le sue caratteristiche fisiche e strutture socio-relazionali determini in gran parte la nostra qualità di vita e il “dove vivo” e lo status socioeconomico si intrecciano”.
Nel rapporto fra città e salute dove si situa l’urbanistica come disciplina?
“Nel rapporto fra città e salute l’urbanistica sta a monte. Questa relazione ha radici antichissime: pensiamo ai filosofi greci, che erano filosofi ma anche un po’ medici. Aristotele ad esempio scrive che una delle quattro considerazioni necessarie per pianificare l’ideale di città è la salute. Il trattato più famoso di Ippocrate da Kos, che molti conoscono per il giuramento che fanno i dottori, è intitolato “Delle acque, delle arie e dei luoghi”. Insomma, l’idea che l’ambiente contribuisca fortemente a determinare le nostre condizioni di salute è molto radicata nella nostra cultura e da lì hanno attinto molte scienze, a partire dalla medicina. L’urbanistica arriva dopo, secondo molti autori nasce come disciplina codificata a metà dell’ottocento, quando in Europa, con la rivoluzione industriale, la popolazione si sposta in massa dalle campagne alle città, che però sono città inquinate e inospitali. La gente vive accanto alle fabbriche, ne respira i fumi, beve acqua contaminata e muore giovanissima. Infatti, possiamo dire che i primi urbanisti sono medici/demografi che avevano intuito che chi viveva più vicino alla fabbrica moriva prima (di nuovo, torna la questione centrale del “dove vivo”). In questo senso, l’urbanistica nasce da questa spazializzazione della malattia. Chi progetta dunque le città ha come fine il benessere delle persone, inteso anche come salute fisica, mentale e sociale. E quest’ultima accezione è emersa chiaramente durante il Covid”.
Quale visione della città bisognerebbe allora adottare per progettare spazi e città in cui si sta meglio?
“Premetto che non c’è una ricetta, che comunque non ci inventiamo niente e che la stessa Città dei 15 minuti che si è affermata durante il Covid ha radici più antiche. Quello di cui abbiamo bisogno per avere città più sane, attive e anche più giuste, sono innanzitutto più spazi di prossimità e spazi pubblici di qualità. Partiamo dalle strade, l’archetipo dello spazio pubblico: quale mobilità vogliamo nelle nostre città? Stiamo ancora adottando modelli modernisti novecenteschi, in cui il traffico veicolare viene prima di tutto, nonostante gli studiosi abbiano perfettamente capito che non possiamo proseguire così. Non è solo un tema di sedentarietà e di inquinamento, ma anche una questione spaziale. Non possiamo continuare a permettere alle automobili di circolare dovunque e di occupare tutto lo spazio fisico della città (le strade, le piazze, i sagrati delle chiese): pensiamo che un’auto in sosta occupa quanto 10 biciclette, quanto 20 persone. Bisogna privilegiare la mobilità sostenibile, quella attiva e quella pubblica, invece di quella privata. In secondo luogo, bisogna riconquistare lo spazio pubblico, quantitativamente e qualitativamente. Giardini, piazze, parchi: il discorso della città dei 15 minuti ha senso solo se chiunque, indipendentemente da dove vive e dal suo status, può uscire di casa in bici o a piedi e andare in piazza a trovare gli amici, al parco a fare una passeggiata. Tutto ciò va fatto prima di dire alle persone di cambiare il loro stile di vita. Bisogna offrire uno spazio urbano che supporti nel tempo un cambiamento nel comportamento: non basta dire alle persone di smettere di usare la macchina, bisogna impostare delle politiche urbane che incentivano le persone a intraprendere scelte che gli permettano di vivere meglio. La teoria la conosciamo, sappiamo come questo può influire sulla nostra salute, ma bisogna prendere delle decisioni, anche politiche”.
Preparare il terreno per il cambiamento culturale, in questo modo si possono anche prevenire malattie o problemi medici?
“E’ tutto collegato. Nel momento in cui il cittadino decide di lasciare a casa la macchina e andare a lavoro in bicicletta o coi mezzi, il pubblico ha già guadagnato perché uno stile di vita più sano, nel tempo, determina un’ottimizzazione delle condizioni di salute della popolazione. Ci sono tutta una serie di studi di diverse discipline che sono in grado di quantificare la spesa sanitaria di un luogo rispetto a un altro in base alle politiche che si intraprendono. Non solo, la salute dei cittadini va di pari passo con la salute urbana, che è anche salute ambientale: se ho meno macchine c’è meno inquinamento, se ho più verde pubblico l’effetto “isola di calore” diminuisce e con essa i disagi e i rischi che induce. Oggi siamo in grado di quantificare anche in termini economici questi benefici. Quello che manca in Italia è il coraggio, tanto degli amministratori, quanto degli elettori. Non ci fidiamo abbastanza degli studiosi e non abbiamo ancora capito quanto le politiche pubbliche possono impattare sulle nostre vite”.
Parliamo di Sport Civico. Come vedi il ruolo dello sport sociale nei processi di trasformazione dei quartieri e delle città in un senso di miglioramento delle condizioni di vita delle persone?
“In questi ultimi 20 anni, si è fatta molta ricerca sul ruolo dello sport, soprattutto nei contesti più fragili. Tutti i casi studiati in Europa, negli USA, in Canada e in America Latina ci restituiscono il beneficio di questi spazi non necessariamente competitivi, soprattutto in quei contesti di scarse risorse, bassa qualità della vita, esclusione sociale e atomizzazione della società. Gli spazi ludico-sportivi aperti sono luoghi di aggregazione attiva in cui i giovani – e non solo – possono incontrarsi e dire “questo spazio è nostro”. Quello che fa Sport Civico in questo senso è rilevante e l’Uisp, essendo l’associazione più importante in Italia ad occuparsi di questi temi, dovrà guardare le cose in prospettiva. Il lavoro puntuale che Sport Civico sta facendo con le scuole, unito agli interventi nei quartieri, potrebbe essere la base per operazioni ancora più grandi, strutturate e sperimentali da attuare in futuro. Ad esempio, si potrebbe lavorare ancora di più sugli spazi pubblici e su sistemi più complessi all’interno delle città, partendo dalla scuola, coinvolgendo le famiglie nel riflettere sulla mobilità dei percorsi casa-scuola. Insomma, uscire dalla logica puntuale, del parco, del giardino, della scuola e andare sui sistemi strutturali delle città. Ovviamente, non si tratta di un percorso di trasformazione che Uisp dovrebbe gestire da sola”.
Che tipo di definizione di rigenerazione urbana dovremmo cercare di tenere a mente e di promuovere per tenerci alla larga da un uso retorico di questa espressione?
“Rigenerazione è una di quelle parole che l’urbanistica ha rubato alla medicina: le nostre cellule si rigenerano, i nostri tessuti. Parlando del legame tra città e salute, significa dunque pensare a dei sistemi socio-spaziali che hanno la forza di rigenerarsi quando “si ammalano”. La cosa che trovo fondamentale di questo concetto è che c’è il RI davanti, cioè che finalmente abbiamo capito che non possiamo più parlare di urbanistica in termini espansivi, di consumo di suolo, ma bisogna ottimizzare le risorse esistenti. La strategia di fondo è allora quella di trasformare le città. Mi piace molto l’idea, come nel caso della definizione proposta dalla Regione Emilia-Romagna, di associare alla rigenerazione una forte partecipazione cittadina, un elemento nuovo rispetto alla riqualificazione di cui si parlava una ventina d’anni fa. Oggi, seppur ancora non sufficientemente, ci siamo accorti che fare, disfare e rifare le città senza la partecipazione democratica di chi le vive espone i processi a un’alta possibilità di fallimento. La ricerca scientifica ci aiuta, perché ha dimostrato che la partecipazione migliora l’attaccamento ai luoghi ed è una garanzia sul futuro: se le persone partecipano alla costruzione degli spazi in cui vivono, poi se ne prenderanno più cura”.
Cosa si può fare allora per coinvolgere il più possibile le persone in progetti come Sport Civico?
“Ovviamente la partecipazione non sarà mai completa: parteciperà sempre e solo una parte di popolazione più sensibile. Dobbiamo accettare questa contraddizione. Detto questo, bisogna abituare le persone. Bisogna far capire ai cittadini che la loro voce è importante e che i loro contesti di vita, la loro quotidianità sono importanti. Inoltre, la partecipazione non è armonia, ma spesso anche conflitto, perché le persone non sono mai completamente d’accordo tra di loro o con gli enti. Allora, fare partecipazione significa anche abitare un conflitto e provare a gestirlo. Posto che portare avanti dei processi partecipativi seri e incisivi è molto complesso, che fare? Bisogna informare le persone sul loro potere, sul fatto che possono fare qualcosa, che è un loro diritto esercitare la partecipazione, far sentire la loro voce. In secondo luogo, non meno fondamentale, bisogna stimolare gli Enti a spendere risorse ed energie in reali processi partecipativi, fargli capire che questo porta un beneficio anche per loro: le persone che partecipano, anche nel conflitto, ti aiutano e alla fine quello che emerge dai processi veramente partecipati sono spazi urbani molto più vissuti e presi in cura dai cittadini che hanno contribuito a realizzarli”.
Lorenzo Boffa