L’estate è una stagione ingrata e odiosa per chi abita il carcere, perché proprio in questo periodo nelle persone detenute aumenta la consapevolezza di sentirsi abbandonate e senza prospettive. Non è un caso, purtroppo, che proprio d’estate aumenti il tasso di suicidi. È quindi sempre più necessario riflettere e andare in profondità nei fenomeni intorno alla vita in carcere.
Lo fa LiberAzioni – festival delle arti dentro e fuori, che quest’anno giunge alla quarta edizione biennale e approfondisce la relazione fra carcere e società. Il lavoro si svolge grazie alla condivisione delle azioni con l’Ufficio della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino, attraverso il più ampio percorso Per un dialogo con il carcere che dà il sottotitolo al festival.
LiberAzioni, promosso dall’AMNC – Associazione Museo Nazionale del Cinema, che nel 2023 compie 70 anni, è in programma dal 9 al 15 ottobre in diversi luoghi e fa dialogare cinema, teatro, letteratura e ricerca. Al centro ci sono le donne, dentro e fuori dal carcere, ancora oggi colpevolizzate quando sono vittime e spesso dimenticate nella loro sofferenza.
Valentina Noya, ritorna LiberAzioni Festival – per un dialogo con il carcere: la vostra ricetta?
Mantenere l’osmosi come recita il nostro sottotitolo “dentro e fuori”. Lo facciamo praticamente coinvolgendo artisti, attivisti, scrittori e giornalisti per svolgere attività in carcere, avvicinandoli a questo mondo per farsi ambasciatori di una narrazione nuova, costruita nello scambio con la popolazione detenuta che merita, come tutte le persone, di essere vista e ascoltata.
In programma dal 9 al 15 ottobre in diversi luoghi e fa dialogare cinema, teatro, letteratura e ricerca. Al centro ci sono le donne, dentro e fuori dal carcere, ancora oggi colpevolizzate quando sono vittime e spesso dimenticate nella loro sofferenza…
Ci sono le donne come ospiti protagoniste: penso quest’anno ad Annalisa Cuzzocrea, presidente della giuria del primo premio cinema con i detenuti, a Tizza Covi e Vera Gemma, regista e attrice protagonista di Vera, candidato agli Oscar per l’Austria che mostreremo alla popolazione detenuta della CC Lorusso e Cutugno il 13 ottobre, a Kasia Smutniak che girò sempre nel nostro carcere con Davide Ferrario anni fa un film oggi impensabile da riproporre produttivamente con lo stesso processo partecipato e poi penso a tutte le donne dimenticate che quando finiscono in carcere di solito è per il culmine di un processo di stigmatizzazione sociale che le vede doppiamente vittime. A tutte le donne che si suicidano in carcere per un dolore che rappresenta una pena accessoria e disfunzionale rispetto al mandato costituzionale che dovrebbe tendere invece al reinserimento sociale delle persone detenute.
Storie brutte, drammatiche, tristi. In queste violenze fisiche e negli abusi ci sono situazioni di sofferenza, infelicità, insoddisfazione, solitudine, tradimenti, incomprensioni. E spesso non si sa quale di queste sofferenze, se quella fisica o quella interiore, sia la più grave. Come descriveresti questo disagio sociale?
Si chiama patriarcato. La maggior parte delle donne che nel nostro paese finiscono in carcere e rappresentano il 7-8% della popolazione detenuta complessiva (le donne delinquono meno) raramente hanno compiuto efferati delitti che dovrebbero essere puniti penalmente. E anche quando compiono reati come l’omicidio in genere si tratta quasi sempre di gesti esasperati nei confronti di uomini aguzzini, compagni o padri che le avevano torturate psicologicamente e fisicamente per anni. Per non citare le madri, spesso rom, poste nelle condizioni di dover scontare e far scontare la loro pena in carcere anche ai propri figli negli ICAM (istituti di custodia attenuata per le madri) del nostro paese: una violazione dei diritti umani e dell’infanzia in piena regola.
Molte ricerche certificano che purtroppo i più giovani hanno timore di non essere creduti nel denunciare atti di violenza. Vuol significare che il mondo degli adulti sta sbagliando qualcosa nel modo in cui ascolta e interagisce con loro?
Molti adulti senza cuore hanno dimenticato l’importanza dell’essere bambini e questo perché il capitalismo ha portato a condannare qualunque fase improduttiva della nostra esistenza. Invece, l’infanzia e l’adolescenza, così come la prima fase adulta sono fasi necessariamente votate alla sperimentazione, al gioco e all’errore utile. La condizione di fragilità in cui tutti versiamo non può essere stigmatizzata o relegata a determinate categorie sociali per condannarle. Questo accade ai giovani oggi: non essere compresi nelle loro sacrosante paure che sono fondate, ma purtroppo il più delle volte non votate alla ribellione, ma alla rinuncia. Soprattutto dei giovani che sono cresciuti durante la pandemia si sottovaluta la dimensione traumatica che hanno vissuto. Non è un’epoca di welfare, di valorizzazione dei diritti fondamentali, della salute e dell’istruzione. È un tempo di barbarie nel nostro paese quello che stiamo attraversando. E i giovani sono quelli che ne pagheranno le conseguenze. Chi si ribella, viene criminalizzato. Ma LiberAzioni è anche vicino a chi lotta con i mezzi leciti della disobbedienza civile.
Fra gli appuntamenti in programma, il festival ha organizzato un evento alla Casa Circondariale Lorusso e Cutugno rivolto ai detenuti. Venerdì 13 ottobre, alle 14.00, sarà proiettato Vera di Tizza Covi e Rainer Frimmel (Austria 2022, 115’), alla presenza di Tizza Covi e di Vera Gemma.
È un film meravigliosamente vitale perché i detenuti hanno bisogno di storie edificanti, intelligenti e divertenti. Come d’altronde tutto il cinema di Tizza Covi e Rainer Frimmel, così ironicamente vicino agli emarginati, ai curiosi, ai puri e ai fuori posto. Vera inoltre insegna la sospensione del giudizio. Sono certa che sarà un film che adoreranno.
Ricapitoliamo: si parla di culture, etica, legalità e salute… ma che aria si respira veramente negli istituti di pena?
Un’aria malsana, come la puzza che emana il carrello del vitto a mezzogiorno, come l’odore della cenere mista alla muffa nelle sezioni sporche, buie e rumorose dove queste persone, persone come noi, scontano la propria pena nel nulla più assoluto: nessuna relazione, nessuno stimolo, nessun insegnante, nessuno spazio da abitare scegliendo il silenzio come ancora di salvezza, perché il silenzio in carcere non esiste. Come possono le persone redimersi, ripensarsi, ricostruirsi in luoghi del genere? Come può un animale sociale essere rieducato senza relazioni umani edificanti?
Ogni detenuto è una storia, un volto, un percorso: come si deve confrontare con le persone che scontano una pena?
Ho conosciuto tanti detenuti e sono persone mediamente estremamente intelligenti, oserei dire che la devianza forse è un tratto che connota talvolta un’intelligenza spiccata. Coordino da anni laboratori artistici di diverso tipo in diverse tipologie di sezioni, che in Italia sono categorizzate secondo i crimini che i detenuti hanno commesso o le loro peculiarità – nel 2019 abbiamo condotto un laboratorio di fotografia e video partecipativi in una sezione che non esiste più, Prometeo, che era destinata esclusivamente a detenuti sieropositivi. Mi confronto di solito con persone, quelle dell’amministrazione penitenziaria prima di tutto per convincerle della necessità dei nostri laboratori in determinati contesti, scegliendoli insieme, con quelle con cui creo i laboratori che poi li conducono e con persone che sono dentro, ci confrontiamo con le loro e le nostre storie.
La credibilità di uno Stato si basa sul rispetto della legalità e sulla capacità di garantire la dignità di ogni persona: possibile che una nazione civile, come l’Italia sia così mal ridotta?
Non mi piace affatto il concetto di legalità perché è lo stesso per cui si può chiudere una persona in una cella e buttare la chiave. Anche i ragazzi di Ultima generazione fanno formalmente azioni illegali, ma che non hanno nessuna ripercussione o creano alcun danno sociale. Preferisco pensare che bisogni fare uno sforzo ulteriore per ragionare e comprendere quali sono criteri di Giustizia nel promanare e attuare le leggi. Perché nei processi in Italia, nei meccanismi difettosi della nostra burocrazia, si perpetrano molte ingiustizie.
Il più grande comunicatore del nostro tempo, Papa Francesco, parlando dell’emergenza Carcere più volte ha dichiarato che occorre una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti. Dal tuo punto d’osservazione crede che questa sia una utopia?
Niente affatto. La speranza si coltiva con gesti semplici, dando una mano, offrendo una possibilità, accogliendo uno sguardo, riconoscendo un altro essere umano; coltivando ove possibile dei talenti. Senza dare un orizzonte ai detenuti, è fisiologico che la maggior parte crolli e torni a delinquere. O si suicidi. Ognuno fa quel che può. Non siamo tutti Nelson Mandela che possiamo resistere al carcere: il carcere è un luogo che fa male. Debilita. Distrugge. Annienta. Ma non c’è bisogno di Papa Francesco per indicarci la via, un po’ devo dire che mi innervosisce che le uniche persone attente ai fragili, come i detenuti, siano i religiosi.
Usciamo dallo sconforto: siamo sicuri che nonostante il bianco e nero delle carceri ci sono storie positive da raccontare. Senza violare la privacy, ci puoi raccontare qualche particolare curioso, inedito accaduto?
Ci sono tantissime storie di redenzione, di vite rinate e queste storie sbocciano ove ci siano stati degli incontri fondamentali con altre persone che hanno saputo aiutare, indicare una via d’uscita: che sia l’istruzione, il lavoro o va bene anche la folgorazione sulla via di Damasco. Senza alcuno stimolo, nel vuoto pneumatico in cui versa l’85% della popolazione detenuta italiana nelle nostre carceri, cosa vogliamo pretendere da queste persone? Una metamorfosi kafkiana? No, con le carceri sovraffollate come le nostre da gente che ha commesso piccoli reati per spaccio, potremo solo andare a incrementare recidiva su recidiva e incrementare l’uso e l’abuso di sostanze che creano dipendenza, come gli psicofarmaci che sono utilizzati al posto delle relazioni in carcere. Mi spiace: per l’happy ending c’era forse più speranza nella risposta su Papa Francesco.
I credits della foto di Valentina sono di Paolo Ranzani