Una mazzetta da 100 euro per ogni disciplina che si desidera insegnare più un’ulteriore “maxitangente” da 2.600 euro – motivata come tassa sul diritto allo studio – per accedere al tirocinio. E’ questo il prezzo che lo Stato chiede a chi osa coltivare l’ambizione di insegnare in Italia. L’ennesima riprova che questo non è un Paese per poveri.
Il regolamento del concorso bandito dal ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, come promesso da Francesco Profumo, titolare del dicastero, alla fine dello scorso anno, dovrebbe ripristinare il regolare accesso alla professione di insegnante nelle scuole secondarie di primo e secondo grado. Come cita l’annuncio pubblicato, per esempio, sul sito online dell’Università di Messina, per iscriversi c’è tempo fino al 4 giugno. Ma le trappole sono tante, a partire dalla maniera in cui il bando è stato mimetizzato, così da limitare l’accesso unicamente ai meglio informati.
Nella homepage del sito web unime.it, infatti, per rinvenire traccia del concorso occorre scorrere il video fino all’undicesima notizia. Titolo per nulla eloquente: “Tirocinio formativo attivo (Tfa)”. Superato questo primo e criptico ostacolo, si scopre tuttavia che le difficoltà sono appena iniziate. A partire dalla denominazione del bando “relativo alle modalità di ammissione ai Corsi di tirocinio formativo attivo (Tfa) per l’insegnamento nella scuola secondaria di primo e secondo grado, anno accademico 2011-2012”. Proprio così: il bando, protocollato il 3 maggio 2012, è relativo all’anno accademico ormai praticamente trascorso.
Come si scopre arrivando in fondo al documento, i corsi sono a numero chiuso: 560 i posti complessivamente disponibili nell’ateneo messinese. Le procedure di iscrizione, inoltre, piuttosto che alla semplificazione sembrano tendere alla massima farraginosità. Ma a stonare con la paurosa fame di lavoro e con la gravissima crisi economica che sta paralizzando l’Italia tutta, oltre che buona parte del resto d’Europa, è la richiesta di denaro indirizzata a chi intende partecipare ai corsi. Come si legge all’articolo 3, comma 1, lettera b) la partecipazione al test preliminare è subordinata, tra le altre cose, al versamento del contributo di iscrizione, pari a 100 euro per ogni classe di abilitazione. Il mancato pagamento della somma implica l’esclusione.
Superato il test – è richiesta una votazione di almeno 21/30 – si potrà accedere alla prova scritta e, se le cose andassero bene, a quella orale (articolo 5). La beffa arriva proprio in vista del traguardo. Come recita l’articolo 8, titolato “Graduatoria”, una volta superate tutte le prove, per perfezionare l’iscrizione al corso è tassativamente prescritto il pagamento di un “contributo, comprensivo della tassa regionale per il diritto allo studio”, di 2.600 euro, metà dei quali da versare entro il 31 dicembre 2012.
Premesso che, se quello allo studio è un diritto, non si capisce perché mai si debba pagare, la soglia minima dei 2.600 euro – oltre a quella precedente di 100 per ogni classe di abilitazione – è un chiaro segnale di come si voglia trasformare l’insegnamento in una prerogativa dei ceti più facoltosi. Richiedere non meno di 2.700 euro, senza offrire nemmeno la certezza che prima o poi si potrà davvero esercitare la professione, significa condannare all’autoesclusione chi non ha adeguati mezzi economici. E, in un Paese che ogni anno si merita le critiche dell’Ocse per la sempre crescente forbice tra ricchi e poveri e gli scarsissimi standard di mobilità sociale, è il sintomo più evidente che non ci sia la benché minima volontà di migliorare le cose.
Del resto, se la Costituzione stessa sancisce, all’articolo 1, che l’Italia “è una Repubblica fondata sul lavoro” è legittimo il dubbio che chi l’ha confezionata, ormai più di mezzo secolo fa, si sia dimenticato di aggiungere che si tratta di lavoro facoltativo… a seconda dell’estrazione sociale.
Fabio Bonasera