C’è un abuso del termine legalità. Non c’è ambiente che ormai non ne parli, ma bisogna intendersi bene sul significato di questa parola. Ritengo che la legalità debba avere alcuni requisiti:
1. La legalità si deve coniugare con la responsabilità.
Solo una contemporanea responsabilità verso se stessi e verso gli altri, infatti, garantisce una vera giustizia sociale. In altre parole, i diritti o meglio si potrebbe dire, la dignità verso gli altri si esercita solo se si fa il proprio dovere. Un po’, tanto per fare un esempio come quando ci si ferma al semaforo rosso. Solo così la circolazione stradale è fluida e sicura, consentendo a chi ha il verde di poter passare liberamente ed in sicurezza. In assenza di rispetto del proprio dovere-obbligo, la circolazione dei mezzi diverrebbe caotica, se non addirittura pericolosa.
2. La legalità vale sempre, anche per le cose che apparentemente sembrano di piccolo spessore.
Quando la società accetta o tollera le piccole illegalità, la coscienza si intorpidisce e si auto-giustifica. I ragazzi “pizzicati” a deturpare i muri esterni ed interni (talvolta anche di scuole), o gli adulti rimproverati da qualche raro vigile urbano zelante quando buttano a terra le cicche delle sigarette, spesso si giustificano con la abusata, quanto terribile frase, “così fan tutti”.
Fra l’altro questo atteggiamento remissivo verso le piccole illegalità produce nelle persone positive e di buona volontà, una sfiducia deleteria: “ E’ inutile intervenire, dicono costoro, perché tanto le cose non cambiano". Anticamera questa per successive grandi illegalità.
3. La legalità va coltivata in tutti, soprattutto nei giovani.
I giovani hanno il cuore intrepido e tendono a non essere conformisti. Ecco perché bisogna instillare in loro atteggiamenti, ideali e pensiero forte. La "ribellione positiva" nei giovani, infatti, va coltivata perché solo da loro può nascere il cambiamento sociale.
Vale la pena a questo punto recensire un film che al recente Festival di Cannes ha avuto una grande accoglienza, confermata anche da un premio importante al 29° Torino Film Festival.
Il film è francese, delle sorelle Delphine e Muriel Coulin e dire che è coraggioso, è dire poco. Si intitola "17 Ragazze" ed è tratto da una storia vera accaduta in Massachusetts (USA) nel 2008.
Una liceale rimane incinta e sulla scia dell’andazzo comune e della cultura dominante riceve pressioni per abortire. Partner, genitori, bidelli, tutti a spingerla a togliere di mezzo quella vita che le pulsava dentro. La pressione su di lei è inaudita, ma Camille (questo è il nome nel film), tra l’amore per il suo bimbo e la voglia di ribellarsi al conformismo progressista, trova la forza per dire no all’aborto. E così pian piano comincia un opera di contestazione e di reazione verso il suo ambiente. Lei è così forte e originale che pian piano tutte le 16 compagne di classe per solidarietà decidono consapevolmente di restare incinte, di avere un figlio e di crescerlo aiutandosi fra loro, possibilmente in modo differente da come sono state cresciute loro stesse.
"La gravidanza delle 17 minorenni procede dunque contemporaneamente, lasciando interdetti la comunità e le autorità scolastiche, che non trovano ragioni né spiegazioni. In un’epoca in cui per una donna trovare “in coscienza” le condizioni ideali per avere un figlio è un impresa titanica, osservare che non una, ma diciassette ragazzine minorenni abbiano avuto sufficiente “incoscienza” per farlo, è fattore che deve fare riflettere. Alla fine "17 filles" ci conduce incredibilmente ad ammirare queste ragazze anziché commiserarle. Come eroine che hanno compiuto l’impresa (Marianna Cappi. Il migliore cinema francese: giovane, ribelle, vitale). Ma quale impresa hanno compiuto Camille e le sue amiche ? L’impresa in cui in un mondo dove la cultura dominante è quella che un cucciolo di uomo vale meno di un cucciolo di cane, dove la legalità viene sbandierata a parole ma senza legarla alla Responsabilità, c’è qualcuno, guarda caso delle ragazzine, che hanno spiegato nei fatti cosa significano amore verso la vita, legalità e giustizia sociale.
Alessandro Pagano