L’Italia è piena di luoghi comuni, spesso alimentati dai mass-media. A questo proposito il professore Luca Ricolfi nel suo “Illusioni italiche”, edito da Mondadori, scrive che i giornali spesso hanno “l’idea che su questioni di fatto dotate di rilevanza politica possano coesistere un’opinione di destra e un’opinione di sinistra è una delle massime aberrazioni del giornalismo di oggi”. Aberrazioni che trovano alimento anche nella Rete, dove si conferma quotidianamente la distruzione della distinzione tra fatti e opinione sui fatti, anche se non mancano le credenze vere, è pur vero, però che difficilmente si possono distinguere quelle false, deformate e manipolate.
Tra gli “esercizi di disincanto”, il professore Ricolfi affronta la questione dei ricchi e poveri nella crisi odierna. Una delle credenze tipiche della sinistra è quella che “la giustizia distributiva passi attraverso l’Irpef, ossia l’imposta che tassa il reddito delle persone fisiche”. Nei programmi di sinistra viene sempre contemplato l’aumento delle aliquote per i redditi più alti, naturalmente per far beneficiare i poveri. Lo scopo sarebbe quello di far pagare la crisi ai ricchi. Il problema è che i ricchi in Italia sono 250.000, soltanto lo 0,6, cioè quelli che dichiarano più di 120.000 euro l’anno. A fronte di questo piccolissimo numero di presunti super-ricchi, paperon de’ paperoni, esistono circa “ 2 milioni e mezzo di possessori di auto di grossa cilindrata (più di 2000 cc), e ben 5 milioni e 300.000 di possessori di auto di elevata potenza (oltre gli 85 Kw), corrispondenti al 7,1 e al 14,8% del parco autovetture. Oltre questi, bisogna aggiungere i possessori di barche, che coinvolge ogni anno quasi 40.000 nuove patenti e oltre 30.000 rinnovi; facendo qualche conto, Ricolfi, desume che esistono almeno 300.000 possessori di barche. Certo si può avere il macchinone anche senza essere ricchi, o una patente nautica senza possedere una barca, “tuttavia – scrive Ricolfi – questi ordini di grandezza conducono a pensare che i super-ricchi non siano meno del 6-7% della popolazione. Eppure le dichiarazioni Irpef ce ne mostrano appena lo 0,6”. Concludendo 9 ricchi su 10 spariscono dalle dichiarazioni Irpef. Perché? Una delle ragioni sicuramente è l’evasione fiscale e quindi il fisco aumentando l’aliquota Irpef non fa che colpire i soliti noti, perlopiù magistrati, professori, primari. Mentre sfuggirebbero i soliti ignoti che ho menzionato prima.
Ma c’è un’altra ragione che aggiunge il professore ed è quella che è lo stesso fisco a permettergli ai ricchi di sfuggire o aggirare la progressività dell’imposizione, lo ha spiegato bene, Victor Uckmar, uno dei più autorevoli tributaristi italiani. Ricolfi suggerisce di colpire i consumi di lusso, piuttosto che dissotterrare il totem dell’Irpef.
Un altro luogo comune che Ricolfi cerca di sfatare è perché gli italiani hanno la sensazione di stare come prima, o addirittura peggio di dieci o venti anni fa. Intanto occorre dire che ci sono beni e servizi che ieri non esistevano o avevano un costo trascurabile, mentre oggi esistono, sono ‘ quasi obbligatori’. Il professore fa qualche esempio, a cominciare dal telefonino ormai nelle mani di ciascun componente della famiglia e poi tante altre spese come la tassa dei rifiuti, parcheggi, multe per sosta vietata, computer, collegamento internet, ticket sanitari, abbonamento calcio in tv, le badanti per gli anziani. Infine i tanti beni durevoli che siamo continuamente costretti a sostituire perché la tecnologia obbliga a farlo. Ma quello che incide maggiormente è il cambio della lira in euro; non è una sensazione ma oggi il potere d’acquisto delle famiglie con l’euro si è dimezzato. Facendo una rozza stima di una famiglia tipo italiana, si deduce che si arriva a una cifra annua di 2000 euro a famiglia di spesa in più, una specie di “tredicesima negativa”.
Quanti sono i poveri in Italia? Ricolfi a questo proposito sostiene che gli italiani a volte sono insaziabili e vogliono strafare, quindi formula un nuovo concetto quello di “povertà soggettiva”: sei povero se pensi che il tuo reddito non sia ‘adeguato’, in quanto inferiore alla cifra che consentirebbe di condurre un’esistenza ‘senza lussi ma senza privarsi del necessario’. Pertanto così i poveri diventano il 70% della popolazione italiana. A pagina 74 il libro affronta il problema del precariato, iniziando dal luogo comune che non esiste la tanto conclamata emergenza dei morti sul lavoro. Lo stereotipo del precario cantato dai media è il giovane cococo occupato in un call center. “Ma il problema – scrive Ricolfi – non sono i giovani occupati con questo genere di contratto, che sono circa l’1% della forza lavoro totale (…) Il problema vero e drammatico è il cosiddetto dualismo del mercato del lavoro”. Nel dualismo il professore identifica le due grandi categorie di lavoratori: gli iperprotetti, difesi dai sindacati, e gli ipoprotetti, con pochissime o nessuna tutela, dimenticati da tutti. Gli iperprotetti sono i circa 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici, mentre gli ipoprotetti sono i lavoratori in nero, secondo l’Istat sarebbero quasi 2 milioni e mezzo. Sul lavoro nero, Ricolfi è convinto che al Nord i posti peggiori, precari e malpagati sono coperti dagli immigrati, mentre al Sud sono gli italiani a svolgere questi lavori.
Mentre sulle pensioni d’invalidità e il colore degli sprechi non mi soffermo, il professore torinese riporta quello che ormai in tanti scrivono, ci sono troppe pensioni d’invalidità false e gli sprechi sono presenti soprattutto nelle regioni del Sud, ma anche al Nord nelle regioni autonome.
Ricolfi affronta il divario delle regioni del Sud, è vero la “questione meridionale” è nata con la conquista del Sud ad opera del Regno di Sardegna, da quel momento il divario è cresciuto sempre più fino a raggiungere il 30 o il 40%. Onestamente Ricolfi ammette che questo divario non c’è sempre stato e così rifacendosi agli studi degli economisti, Paolo Malanima e Vittorio Daniele, scrive: “non è affatto vero che al momento dell’Unità d’Italia il Sud fosse economicamente più arretrato del Nord. Il divario, invece, sarebbe interamente un portato della storia unitaria, qualcosa che non esisteva nel 1861 e si sarebbe prodotto dopo”.
Ma ritornando a oggi, il divario esiste, nel market, nella produttività, nei servizi pubblici, però i dati riservano sorprese quando si parla del tenore di vita, ossia di come se la passa la famiglia-tipo del Mezzogiorno. Il professore ammette che la famiglia del Sud effettivamente ha redditi nominali più bassi delle famiglie centro-settentrionali, però secondo lui ha tre vantaggi: “una maggiore evasione fiscale, una redistribuzione favorevole grazie agli aiuti pubblici, un livello dei prezzi decisamente più basso”.
Pertanto secondo il professore il costo della vita al Sud è più basso del Nord, quindi il potere d’acquisto è uguale a quello del Nord, su questo però dissento dal professore, bisogna fare ulteriori precisazioni.
Sulla politica Ricolfi si sofferma sul partito del disincanto, ovvero la questione dell’assenteismo, del non voto, di per sé non è un dramma, come succede negli Usa, ma lo diventa in Italia, dove, secondo Ricolfi, c’è una democrazia non compiuta. Infatti difficilmente un elettore di destra diventa elettore di sinistra e viceversa. Pertanto, la scelta del non voto, assume un carattere assai più radicale, proprio com’è successo alle regionali in Sicilia, dove il partito del disincanto ha raggiunto il 52% . Ricolfi conclude l’argomento sull’astensionismo, scrivendo che il partito del non voto è quello che riceve più consensi, ma non manda nessuno in Parlamento, “però la sua mera esistenza getta un’ombra sugli altri partiti, perché – a differenza che altrove – in Italia il non voto non è frutto della maturità della nostra democrazia, ma semmai della sua lenta decomposizione. Speriamo che, fra un battibecco e l’altro, i nostri politici ci pensino un po’ su”.
DOMENICO BONVEGNA
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