L’epiteto ‘becero’ è senz’altro ‘lesivo dell’altrui reputazione’, ma se viene rivolto, durane una discussione politica a un compagno di partito o anche un ‘avversario’, la parola è ammessa e discriminata dal diritto di critica politica perchè indica la critica ‘alla perpetuazione di sistemi gestionali volti alla copertura di grumi di interessi di parte’. Lo sottolinea la Cassazione. Con la sentenza 45014, la suprema corte ha, infatti, annullato la condanna per diffamazione nei confronti di Marcello P., un militante politico di Crotone (il partito di appartenenza non è specificato nel verdetto) che era stato condannato dal tribunale di Crotone, nel febbraio 2011, per aver apostrofato con l’appellativo di ‘becero’ Roberto M., durante il congresso di partito al quale entrambi partecipavano. La parola era stata pronunciata ‘in riferimento al conferimento di incarichi regionali’. Ad avviso della Cassazione questo è ‘un tema capace per sua natura di sollevare, tanto più in un piccolo consesso, come quello del Comune di Crotone, confronti dialettici anche vivaci tra i rappresentanti delle contrapposte parti, pronte a rinfacciarsi, anche per il passato, gestioni della cosa pubblica tutt’altro che ispirate alla cura dell’interesse generale, quanto piuttosto orientate al perseguimento di interessi particolari, di natura clientelare e di scarsa trasparenza, se non proprio di patente illegittimita’, su argomenti da sempre, e ovunque, occasione di vivace scontro politico, come quello relativo alla ripartizione di incarichi presso una Regione’. Pertanto, rilevano i supremi giudici, la parola ‘becero’ era da considerare come ‘una censura, assai colorita, ad un metodo di amministrazione, e il suo significato trascendeva l’ambito individuale o la sfera personale della persona alla quale era rivolta, per porsi come critica a un sistema di gestione’. Anche se ‘discutibile sul piano quantomeno dello stile, dell’opportunità e del costume politico’, tuttavia, per la Cassazione deve essere applicata la causa giustificativa della critica politica in nome della libertà di pensiero garantita dalla Costituzione. Così la condanna è stata stracciata nonostante la Procura della Cassazione ne avesse chiesto la conferma.