Moralità, onorabilità, incorruttibilità: se lo si dice a un bambino, potrebbe farci una bella rima. Se lo si dice a un adolescente, potrebbe travestirsi da samurai e inscenare battaglie epiche dei sogni e delle parole. Se lo si dice a un adulto, a una persona dall’intelligenza sviluppata perché formata dall’educazione, dovrebbe ritenerli carne e sangue di ogni pre-requisito per una buona vita. Dovrebbe e potrebbe esser così, purtroppo così non è, ci sono innumerevoli motivi che si stagliano all’orizzonte e si frappongono per questo dire e non fare. Motivi seri e motivi artefatti, altri motivi creati ad arte per disegnare confusione e spostare l’attenzione, per irreggimentare le sensibilità, fino a farle diventare sussulti di indignazione a scoppio ritardato. Quando poi l’indignazione avrà toccato il fondo più inclinato della disperazione, sarà terreno fertile per ogni ulteriore indifferenza. Un bimbo cresce aggrappato al seno della propria madre, sicuro al suo calore, un adolescente va incontro alla sua maturità attraverso un valore che non è scambiabile con nessuna altra merce: il rispetto.
Il rispetto per se stesso, per gli altri, per la vita che non rilascia patenti da clandestino per meglio riuscire a barare, rispetto che non si impara con una formuletta chimica edulcorata da un disegno tracciato alla lavagna. Rispetto che si apprende attraverso l’esempio che non fa passi indietro, non si nasconde, che proviene dall’insegnamento delle persone autorevoli che non temono la fatica, l’impegno della solidarietà, quella costruttiva dell’accogliere e accompagnare, nel sudare insieme per un obiettivo comune, un bene comune, una società in comune, rispettosa delle cose e delle persone.
Moralità, onorabilità, incorruttibilità, grandi idealità abbandonate alle intemperie ormonali, senza vergogna o disturbo di coscienza, mentre dovrebbe apparire da ogni azione e comportamento uno stile di vita corretto e condiviso, da perseguire in età dolce, negli anni ancora da venire, da amare, da costruire, da custodire. Invece è sotto gli occhi di tutti il suo esatto contrario: il fastidio e l’imbarazzo con cui si trattano e argomentano i più giovani, lasciandoli a margine, nella precarietà, privandoli di note importanti di coinvolgimento, di corresponsabilità, di complicità mai sottobanco, come accade sempre più spesso quando si tratta di impegnare tempo e pazienza in spiegazioni plausibili per consentire scelte libere di responsabilità.
Una società più giusta non significa più ricca, opulenta, invasiva e pervasiva dei sentimenti altrui, una società più equa potrebbe volere dire meno disattenta, meno oppressa dalla droga sparata in vena, inalata o bevuta. Maestro inadempiente che non scende dal pulpito, non riconosce errore, non abilita alcun servizio né utilità sociale, bensì gonfia le tasche dei pochi a dispetto dei tanti, sospinti all’indietro con disprezzo della pietà per ogni dignità calpestata.
Una collettività più giusta non ha paura della verità, di ciò che non è stato fatto, di quanto è da migliorare, non mette in evidenza i soli tratti vincenti, mimetizzando quelli perdenti, i quali hanno contrassegnato un agire passivo e parassitario, un operare che non è agire, ma barcollare da un bicchiere all’altro di inutili bugie. Moralità, onorabilità, incorruttibilità, sembrano altezze inarrivabili, un’estenuazione così estenuante da non poter esser scalfita se non addirittura pronunciata, figuriamoci raggiunta. Eppure è in questa linea mediana, in questa terra di ognuno o forse di nessuno, che è possibile ritrovare un senso da confidare ai nostri figli, soprattutto per tenere barra a dritta noi adulti, evitando di incorrere in quel “tronco funesto che è l’indifferenza“, quel modo di non essere che induce a non chiamare le cose con il loro nome, non volendo conoscerle per quello che sono.
Vincenzo Andraous