di Roberto Gugliotta
Si può fuggire dalla realtà. Si può fuggire da Messina. E si può fuggire mentalmente e idealmente dal carcere quotidiano, attraverso il tratto di una riflessione che risponde a una poesia, la illustra e la fa propria. Evadere, appunto. Oppure sognare di farlo. Lo scarto verso la fuga, la comunicazione indiretta fra due mondi chiusi e isolati come lo Stretto di Messina, la prigionia fisica e quella mentale, il collegamento fra diverse solitudini – sponde – che viaggiano parallelamente e che non si sono mai incontrate se non nello spazio d’una analisi, d’un disegno, e alla fine d’un libro: Messina Capitale d’Italia. Ma oggi è ancora possibile ipotizzare una fuga dalla squallida realtà di una falsa rivoluzione? No. Sembriamo detenuti del carcere. I messinesi sono usciti dalla città: quasi tutti sono stati rintracciati attraverso Internet e sono stati fatti evadere metaforicamente dal Web per scrivere una pagina nuova per questa terra saccheggiata dai predoni dello Stretto. C’è tanto di marcio nei Palazzi ma anche di buono nella testa degli ultimi. Messina per fortuna non è solo Renato Accorinti. Non è quel cerchio magico di Sistema. E questo incontro in differita finisce per rappresentare due modi diversi di fuggire che incidentalmente si sono incrociati nell’evasione. Sono due isolamenti che non si conoscono, che forse non si guarderanno mai in faccia ma che comunicano fra loro in uno spazio che non ha nulla di virtuale. No, non si può dire affatto che questo luogo di fuga sia virtuale: è lo spazio di una riflessione ma è anche qualcosa in più, è lo spazio della realtà umana in cui siamo un po’ tutti prigionieri. Ci sono le mura, le chiese e c’è la torre degli asinelli: l’università degli scandali, dei concorsi truccati, dei figli dei figli, che non sono mai i nostri figli. Una città zeppa di scheletri. Però non c’è tetto e questo (per chi voglia fuggire) dovrà pur significare qualcosa. Il problema di Messina è che a volte non riesci neanche ad assaporare la vita. Nella mia filosofia di vita vorrei che lei fosse me, libera di poter andare al mare e di sentire il vento… C’è un grande scontro in città per spartirsi il potere, i palazzi, le poltrone: ma chi è più prigioniero e chi è più in fuga, chi davvero è riuscito a evadere e chi può dirsi libero? In fondo, siamo tutti prigionieri: è peggio esserlo di un muro di cemento o dei propri pensieri? L’evasione diventa doppia e parallela: è la fuga di chi evade dalla realtà e quella di chi invece cerca di avvicinarsi a essa recuperando un legame col mondo esterno. Ma allora la sfida non è solo del Rettore, del sindaco o della precaria: fa pensare alle tante evasioni desiderate e mai attuate da chi si ritrova stritolato in una realtà che non è la sua. O da chi si costruire prigioni dorate da cui guarda con nostalgia il mondo esterno. Allora emerge in sottofondo una domanda più grande: quanto sono tutti prigionieri, i pezzi del Sistema e le masse che guardano il mondo da dietro le sbarre e noi che ci interroghiamo sul senso dei labirinti? Quanto sono prigionieri quelli che corrono dalla mattina alla sera e quelli che vorrebbero evadere dai propri pensieri, quelli rinchiusi in un carcere fisico e quelli che non riescono a fuggire dai loro recinti esistenziali? Quanto sono prigionieri quelli che tacciono e quelli che obbediscono a prescindere dai comandi ricevuti? Quanto sono alte le prigioni reali e quanto sono pesanti quelle mentali? Ma poiché è impegnativo dare del potente a qualcuno come del cretino, forse è meglio insistere ancora e cercare con qualche logica la libertà di fuga. Magari lo spazio di una riflessione.