Vendute, ricomprate, spesso passate da una proprietà all’altra, da un paese all’altro. È la storia di molti marchi d’eccellenza nati in Italia, ma che di italiano oggi hanno ben poco. Lo studio sulla vendita di aziende simbolo del Made in Italy, che Uil Pubblica Amministrazione ed Eurispes hanno deciso di realizzare consapevoli della criticità del momento storico nel quale viviamo, vuole stimolare l’attenzione e la riflessione del sistema politico e istituzionale su un tema forse per troppo tempo trascurato ma che sarà decisivo per il futuro stesso del nostro Paese.
Sono state identificate quelle aziende fondate in Italia, simbolo della nostra migliore produzione artigianale e che hanno vissuto momenti di successo e di crisi, fino a cambiare proprietà e bandiera. Un database che raccoglie una selezione di 130 importanti marchi che soprattutto negli ultimi 20 anni per motivazioni differenti hanno registrato cambiamenti nella proprietà.
La lettura dei dati raccolti nel database è affrontata prendendo in considerazione le quattro macro aree del Made in Italy: alimentare-bevande (43), automazione-meccanica (16), abbigliamento-moda (26) e arredo-casa (9); sono state registrate altre 36 aziende nella categoria “altro”, riguardanti i comparti della chimica, edilizia, telecomunicazioni, design, energia e gas, ecc.
«Molte delle nostre migliori realtà imprenditoriali – spiega Gian Maria Fara, Presidente dell’Eurispes – sono state schiacciate dalla congiuntura economica negativa, unita all’iperburocratizzazione della macchina amministrativa, a una tassazione iniqua, alla mancanza di aiuti e di tutele e all’impossibilità di accesso al credito bancario. L’intreccio di tali fattori ha inciso sulla mortalità delle imprese creando una sorta di mercato “malato” all’interno del quale la chiusura di realtà imprenditoriali importanti per tipologia di produzione e per know-how si è accompagnata spesso a una svendita (pre o post chiusura) necessaria di fronte all’impossibilità di proseguire l’attività.
L’afflusso di capitali esteri nel nostro Paese non è quindi avvenuto secondo le normali regole di mercato e le aziende si sono dovute piegare a una vendita “sottocosto” rispetto al loro reale valore. E per quanto ci si sforzi di imputare al mercato globalizzato tutte le colpe di una simile situazione, è ormai chiaro che qualcosa non quadra e che i conti di certo non tornano. Come non torna l’assenza dello Stato e della politica e, insieme, di quella classe dirigente generale che non ha preso una posizione forte rispetto al progressivo sfaldamento della nostra economia preferendo un atteggiamento silenzioso, e per questo in qualche modo complice. Nonostante si parli ormai da anni della vendita a prezzi stracciati del “prodotto Italia”, infatti, nessuno ha mai voluto davvero dire la verità e cioè che nulla è stato fatto per contrastare lo stato delle cose.
In più, occorre sottolineare come si assista di frequente a un’altra deriva particolarmente preoccupante. Spesso le nostre aziende vengono acquistate da altre aziende di paesi stranieri, vengono svuotate dei macchinari e del know-how, e mai riaperte. Anzi – aggiunge il Presidente dell’Eurispes – un’azienda può vivere la strana condizione di soggetto “perennemente sul mercato” poiché la proprietà passa da un’azienda all’altra, da una società all’altra, da un paese all’altro, in un giro vorticoso che lascia quanto meno perplessi dal punto di vista della trasparenza. D’altra parte, in un mercato globalizzato all’interno del quale la lotta diventa ogni giorno più dura e senza esclusione di colpi, la concorrenza non si fa più solo attraverso l’innovazione di processo e di prodotto, ma anche o forse soprattutto, attraverso l’eliminazione dell’avversario diretto acquistandone l’azienda e dismettendone la produzione».
«All’interno di un sistema finanziario sempre più immateriale e senza patria – sottolinea Benedetto Attili, Segretario Generale UIL-PA – diventa ancora più arduo ricostruire l’origine e i percorsi dei capitali impiegati così come dei vari interessi a essi riconducibili. È certo però che questi interessi, il più delle volte, non corrispondano a vere vocazioni imprenditoriali, ma siano organizzati secondo la logica del massimo profitto.
La svendita della nostra rete produttiva quindi ci impoverisce sia dal lato economico – poiché siamo costretti giocoforza a vendere a un prezzo inferiore rispetto a quello reale – sia per la perdita di asset immateriali, a volte di difficile quantificazione economica, perché vengono meno la tradizione, l’esperienza e la storia insita in ciascuna delle aziende di cui ci priviamo. In questo senso, va ricordato che la nostra imprenditoria è fatta di imprese, costruite nel corso degli anni esaltando il concetto di qualità. Non solo. Accanto a questi problemi non si può tacere sulla condizione nella quale versano migliaia di lavoratori che si ritrovano in cassaintegrazione e, probabilmente invano, attendono la possibilità di un reintegro a ogni nuovo cambio di proprietà. E neanche è più possibile sottacere il dramma di quanti si sono trovati improvvisamente senza lavoro e senza alcuna tutela. Sempre sul versante dell’occupazione – conclude il Segretario Generale UIL-PA –, quello che può accadere è purtroppo che, rilevata un’azienda che prima produceva in Italia, si trovi più conveniente delocalizzare la produzione in paesi con minor costo del lavoro, meno barriere burocratiche, ma anche normative assai diverse dalla nostra sia sul piano della sicurezza sul lavoro sia su quello della tutela della salute dei consumatori. Le conseguenze di ciò sono ben note: perdita di posti di lavoro, di personale specializzato e, inevitabilmente, abbandono degli standard di qualità del prodotto».