C’è la crisi che sta impoverendo le famiglie. Ma soprattutto c’è l’Italia che tratta male i suoi figli. Ne fa pochi. Li fa studiare male. Li grava di debiti e non gli offre un lavoro. Non solo, ma secondo il giornalista Aldo Cazzullo, “non li prepara alle difficoltà che incontreranno”. Ma soprattutto,“viziamo troppo i nostri ragazzi. Tentiamo di accontentarli in ogni capriccio, di anticipare le loro richieste, di prevenire i loro desideri. Li sfamiamo al di là di quanto desiderino. E quando si affacciano sul mondo sono già sazi”. E’ anche vero che l’Italia ha una disoccupazione giovanile vicina al 40 per cento, al Sud anche oltre, qualcosa che assomiglia alla Striscia di Gaza. Tanto che lo stesso presidente della Conferenza Episcopale Italiana, monsignor Angelo Bagnasco è costretto a dire che “si sta perdendo una generazione”. E subito si domanda: “che cosa sarà di tanti giovani?”. Anche se subito dopo incita l’Italia a non scoraggiarsi e a tenere desta la speranza, nonostante il calo dell’occupazione e la rassegnazione al non lavoro. Intanto dovrebbe cambiare la politica, i partiti, il dato delle astensioni alle ultime elezioni regionali sono fortemente preoccupanti. Ma se è vero che deve cambiare la politica, certamente devono cambiare anche i nostri ragazzi, i nostri figli. E’ una tesi sostenuta da Aldo Cazzullo, nel suo “Basta piangere! Storie di un’Italia che non si lamenta”, Mondadori (2013). Cazzullo rievoca personaggi della politica, dello spettacolo, dello sport, canzoni, film, libri e oggetti di un’Italia che si accontentava di poco. E’ un libro che potrebbe essere una piccola summa di tutto quello che è successo nell’ultimo secolo. Cazzullo racconta frettolosamente e forse confusamente, uno dopo l’altro, fatti, episodi, personaggi di cui ci eravamo dimenticati. Il giornalista piemontese, racconta ai ragazzi la storia della sua generazione e quella dei padri e dei nonni, “che non hanno trovato tutto facile; anzi, hanno superato prove che oggi non riusciamo neanche a immaginare. Hanno combattuto guerre, abbattuto dittature, ricostruito macerie. Hanno fatto di ogni piccola gioia, un’assoluta felicità (…)”. Sulla povertà di quei tempi mi ha colpito il racconto di Cazzullo che scrive: “Figure sociali da tempo scomparse: la lavandaia, la rammendatrice, la rimagliatrice che aggiustava le calze smagliate (le calze di nylon erano allora un bene di lusso), il ciabattino che viveva di riparazioni da poche lire: nessuno avrebbe mai gettato via il suo unico paio di scarpe. Ci si vestiva al mercato, e i poveri non avevano abiti per tutta la famiglia: ‘il primo che s’alza si veste’ non è un proverbio di fantasia”. La stessa realtà è raccontata da Marcello Veneziani nel suo “Sud. Un viaggio civile e sentimentale”, Mondadori (2009), dove racconta una scena grottesca, in passato, nella sua Puglia c’era gente che prima di sedersi, si abbassava i pantaloni per non rovinarli.
Mentre i nati negli anni sessanta, non hanno visto la guerra o la fame, certamente non sono vissuti in un paradiso in terra, hanno visto tensioni, tragedie. Hanno vissuto in un Paese più inquinato, fabbriche in città, nubi tossiche, ciminiere, smog. E poi c’erano gli “anni di piombo”, le bombe, i fascisti e i comunisti, le brigate rosse. Mentre la borghesia era terrorizzata dai sequestri di persona. Era una società perfino più maschilista, i cui “femminicidi” non facevano notizia. C’era la leva obbligatoria. L’Italia era un Paese di frontiera in un mondo diviso in due blocchi, arrivato a un passo dallo scoppio della guerra nucleare. Per Cazzullo, “L’Italia di allora era molto più modesta, semplice, povera dell’Italia di oggi: con meno soldi, meno consumi, meno tecnologia, meno automobili, meno aeroporti, meno autostrade”.
Nonostante tutto questo era un Paese che non si lamentava. Certo mancavano tante cose, “ma non il senso di quel che si doveva e non si doveva fare; in cui il futuro non era un problema, perché non eravamo convinti che dipendesse da noi, e sarebbe stato migliore del presente se avessimo dato il meglio di noi stessi”. Cazzullo candidamente afferma che “l’adolescente di oggi è l’uomo più fortunato della storia. Anche se nato in una famiglia impoverita dalla crisi, ha infinitamente più cose e più opportunità di un ragazzo di qualsiasi generazione nel Novecento”. Un messaggio controcorrente, peraltro sostenuto coraggiosamente, ma il giornalista insiste, l’adolescente di oggi, “vive in una casa riscaldata, illuminata, con il bagno e l’acqua corrente, che i miei bisnonni da giovani avrebbero osservato con la bocca spalancata dallo stupore. Ha un motorino o una macchina o l’abbonamento a una rete di trasporti pubblici che nelle grandi città include la metropolitana, mentre i miei nonni erano troppo poveri per avere anche solo una bicicletta e pagarsi il biglietto della corriera”. Ma non basta, “Ha la tv a colori con decine di programmi a qualsiasi ora del giorno e della notte, un computer connesso potenzialmente con il mondo intero, il telefonino con cui scaricare qualsiasi canzone o film immaginabile, una varietà di social network (…)”. Allora Aldo Cazzullo ricostruisce l’inizio della crisi che in Italia è iniziata prima del 2008, del fallimento in America della LehamanBrothers. Addirittura per lui comincia con il 1992, quando c’era il Caf, il patto di potere Craxi-Andreotti-Forlani, che avevano “nascosto a lungo la testa sotto la sabbia, accumulando un debito pubblico mostruoso”, poi le nostre cattive abitudini hanno fatto il resto. Ora Cazzullo cerca di spiegare come uscire da questa maledetta crisi: “i quarantenni anziché beccarsi come i capponi di Renzo, si uniscano per cambiare il paese. I ragazzi smettano di piagnucolare per qualcosa che ancora non conoscono e che dipende soprattutto da loro: il futuro”. Non bisogna fondare lobby o altro, occorre fare come i nostri fratelli maggiori o minori. Dobbiamo uscire dal nostro individualismo, armati l’uno contro l’altro, “convinti che il successo fosse un fattore strettamente personale, e la massima soddisfazione fosse fregare il vicino di banco”. Cazzullo è estremamente lucido sua analisi: “Siamo cresciuti come monadi. Ognuno per sé, Mai in gruppi. Dire ‘noi’ non ci viene naturale. Fatichiamo a trovare libri, film, musiche, valori, che ci definiscono come generazione. Scrivo anche per questo: per ricordare che invece sono molte le cose che ci legano, le esperienze che ci accomunano, i ricordi che fanno di noi una comunità di memorie e di destini. Perché alla fine la vita uno se la gioca con la propria generazione: nel lavoro, nelle amicizie, negli affetti, negli amori”. Dobbiamo cambiare, unirsi è meglio, fare rete, costruire alleanze, costruire ponti, direbbe Papa Francesco, stringere amicizie, condividere progetti comuni. Per la verità, le riflessioni di Cazzullo sembrano scritte non da un laico ma da un religioso, un uomo di Chiesa, che per sua natura è si un realista, ma soprattutto dev’essere sempre un ottimista.
“Siamo stati convinti che ognuno bastasse a se stesso, chiuso nel proprio piccolo mondo fatto di parenti, meglio se consanguinei, amici della scuola (…)”. Non ci servono eroi, portabandiera, simboli, aggiungerei, forse ci servono i santi. Comunque sia per Cazzullo“ci basta essere all’altezza di noi stessi”. Siamo dentro a una rivoluzione e non ce ne accorgiamo, nonostante viviamo una stagione di depressione e di pericoli, nello stesso tempo sono tempi di opportunità. “I giovani italiani devono capire che l’autocommiserazione non serve a nulla, e le vecchie scorciatoie non funzionano. Per trovare lavoro devono studiare di più. Prepararsi meglio, formarsi con maggiore sforzo, e se necessario sacrificarsi”. Serve studiare di più, basta con l’ignoranza, basta piangere.
DOMENICO BONVEGNA
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