di VINCENZO ANDRAOUS
Ci risiamo, come ieri, avanti Cristo, dopo Cristo, quella Croce offesa, umiliata, annientata. Ognuno a rivendicare ragione, diritto, giustizia, ciascuno a fare nel sangue la propria assoluzione da vincitore. Terre inzuppate di sofferenza imbavagliata, atrocità nascoste, massacri silenziati, dentro stati della mente ottusi e conclusi, dimensioni del cuore che non posseggono più alcuna compassione, pietà, l’ultima volontà di un perdono. Terre di potenti che non concedono più metri, ne tolgono, terre di ricchi e di poveri ridotte a camposanti, in preda all’ira della vendetta, a urlare colpe, condanne, accuse incrociate, la sentenza sta nei tanti e troppi volti reclinati. Eserciti bene intruppati e colonne di affaccendati con la polvere da sparo, tecniche di guerra e pratiche del terrore, popoli fintamente mascherati di giustizia, angolazioni di disumanità abbandonata a se stessa, nell’esclusione sociale, caratterizzata dai più alti livelli di controllo sulle persone, subordinate ai colpi di pietra, di machete, di pistola, di obice. L’idea che osservare e costringere qualcuno in condizioni sub-umane sia sinonimo di osservare ciò che accade in termini più generali, è davvero una bestemmia pronunciata ad alta voce, una derisione all’onestà intellettuale, con lo scopo di rendere la tortura e l’omicidio una condizione alternativa più accettabile. Si muore scomposti dal rumore degli spari, degli scarponi chiodati, dai cingoli dei carri armati, fanno breccia nel cuore indurito di chi non ha più figli, sorelle, fratelli, una famiglia, la propria casa. Nel morso antico dell’odio, della vendetta, della supplica e della concessione tradita, si muore dentro la propria storia millenaria, si muore per una bandiera, per un pezzo di terra con tanti padroni e pochi giusti. Si muore per opulenza da difendere, per povertà da rivendicare, si muore per un principio, per una fede contrapposta, si muore per delirio di onnipotenza, anche là dove il potere ha solo voce di commiserazione. Si muore senza onore delle armi, si muore tra gli scaracchi, mai con sentimento di riconciliazione. Al dolore per una scomparsa, c’è preghiera di circostanza, azione di propaganda, che sfocia nella ferocia del più forte, persino il più debole non fa passi indietro. Spara il cannone, spara il lanciarazzi, sparano come forma di tutela della propria incolumità, della propria leggittimità a esistere in un territorio che non ha più speranza, perché oppressa dalla più ostile disperazione.
Ci risiamo, proprio come ieri, donne, uomini, bambini, trucidati in una sinagoga, in autobus, altri suicidati su una trave, altri ancora in galera, dentro le proprie case polverizzate.
Tu ne ammazzi uno, io ne ammazzo cento, tu lanci razzi, io bombardo, donne, vecchi, bambini, carne da macello con la divisa della vittima svenduta e fin’anche oltraggiata.
Un passato che non passa, che non insegna un bel niente, che non allena gambe solide per ritornare al mondo di un possibile futuro. E’ un’umanità in asfissia, stretta tra eredità indicibili e rivalse fraudolente, plotoni in fila per tre in attesa del colpo alla nuca, persone prese in mezzo, non più riconosciuti i ruoli, il valore della vita umana, da ogni barricata il nemico a vista è da atterrare, non più storie di uomini, ma numeri, cose, oggettistica d’accatto, rimasugli da estinguere in fretta. Non c’è spazio per il rispetto, sono minacce che s’avverano, a differenza di qualche parolaio da gran cassa mediatica, in questo film che s’annuncia poderoso, non c’è Davide contro Golia, bensì innocenti senza più documenti di identità, ma forse Dio, il tuo, il mio, non starà più appoggiato a fare di conto con arguzia da mercato, forse Dio s’è davvero stancato.