MONSIGNOR LA PIANA LEI PERMETTE?

di ANDREA FILLORAMO

Formalmente la Chiesa cattolica e la sua gerarchia si considerano inconciliabili con la massoneria. Ma sono state tante, almeno nel passato, le sue commistioni d’interessi e le frequentazioni con “massoni” e con “gruppi di potere”, “faccendieri”, “ ladri” e “mafiosi”, che costituivano e forse costituiscono, diciamolo pure, una “massoneria” che chiamiamo “bianca”. Essa è formata, come l’altra massoneria, che chiamiamo “ storica”, da vere “logge” occulte, che magari possono anche non aver da fare, almeno per alcuni contenuti ideali, con la massoneria, ma esistono, a Roma come in ogni città, quindi anche a Messina, almeno dagli anni del sodalizio finanziario tra monsignor Paul Casimir Marcinkus, patron dello Ior e i piduisti Roberto Calvi e Michele Sindona. Certamente Mons. Calogero La Piana, arcivescovo e archimandrita di Messina, non conosceva questa diversa “massoneria”, a lui “segreta”, o pensava che essa non fosse arrivata al di là dello Stretto, quando, a due anni della sua presenza nella città di Messina, il 13 gennaio 2009, concedeva un’intervista al giornalista Mauro Cucè, della Gazzetta del Sud e sosteneva che la città era in mano, ai “massoni” “storici”, che controllavano tutto e tutti, impedendone lo sviluppo e la crescita. In quella intervista, l’Arcivescovo individuava, infatti, alcuni elementi che minavano, a suo parere, le fondamenta della società attuale: il senso di sfiducia della gente nei confronti delle istituzioni; il degrado della città che non trova alcuna soluzione istituzionale; l’assenza di una vera cultura politica; gli scandali quotidiani: all’Università col rettore sospeso e alla Provincia col presidente indagato; la necessità di ricostruire valori sociali condivisi; l’assenza di senso civico; una visione troppo materialistica ed edonistica della vita; l’eccessivo permissivismo genitoriale; l’indebolimento dei vincoli familiari; l’assoluta mancanza di rispetto verso gli altri; la necessità di spazi culturali e di socializzazione in assenza dei quali la gente si allontanava da tutto, anche dalla chiesa; l’urgenza di proteggere ed esaltare le bellezze naturali e di educare i giovani al senso di una fattiva imprenditorialità fuori dalla logica del posto fisso. Tutto vero. Insomma, l’arcivescovo, in buona fede ma con superficialità, accusava la massoneria di essere la causa di tutto il degrado “morale”, “istituzionale”, “sociale”, ambientale” della città, e non individuava altre cause e altre responsabilità. Trovava, quindi, il capro “espiatorio”. Non si rendeva conto che dava un “alibi” a quanti si dovevano addossare la “ colpa” del disastro operato nella città, che non possono essere solo dei massoni. Giustificato, quindi, è apparso l’intervento, allora, del gran maestro Pruneti, che si chiedeva quale fosse il nesso causale che rendeva certa la responsabilità della massoneria e di quale massoneria egli parlasse. L’arcivescovo non ha risposto, non conosceva ancora le cause del degrado della città. Adesso, a distanza, di sei anni, ci chiediamo se dopo l’esperienza acquisita nella gestione amministrativo-pastorale di una grande diocesi, nell’appalto di chiese, nella compravendita di beni e prodotti della diocesi, nell’affidamento di incarichi che non sono solo quelli parrocchiali e altro ancora, ha individuato le vere cause del “disastro” messinese.