Nel saggio "Dei delitti e delle pene", pubblicato nel 1764, a cura di Cesare Beccaria, si affermava che "non è l’entità della pena che ha funzione deterrente ma la certezza della pena stessa". Sono passati 251 anni ma i nostri legislatori non hanno appreso la lezione. Infatti, la commissione Giustizia del Senato, ha deliberato l’aumento della pena per la corruzione fino a 10 anni. Ovviamente, siamo tutti contrari alla corruzione, ma serve aumentare le pene? Il pubblico ministero, Carlo Nordio, che si è occupato dell’inchiesta sul Mose a Venezia, ha dichiarato: "La madre della corruzione, 20 anni fa come oggi, è la complessità delle leggi. Se devi bussare a cento porte invocando cento leggi diverse per ottenere un provvedimento, è quasi inevitabile che qualcuna resti chiusa e qualcuno ti venga a dire che devi imparare a oliarla". Dunque non rimane che semplificare le norme esistenti e questo è compito proprio dei nostri legislatori e amministratori. Approvare maggiori pene, non riflettendo sul fatto che l’inasprimento non serve e che, semmai, occorre agire sulle procedure per rendere semplice e trasparente ciò che oggi è complesso. Dunque? Diffidare dal polverone che è sollevato da chi propone nuove norme o l’inasprimento di quelle esistenti. Vero è che sono in vista le elezioni amministrative e mostrare i muscoli porta consenso visto che il fumo annebbia la vista, e la mano, degli elettori. Facile fare il fumo, più difficile fare l’arrosto, cioè agire sulle cause della corruzione. Quando i nostri legislatori cominceranno a lavorare in questo senso?
Primo Mastrantoni, segretario Aduc