La discussione pubblica sul Piano di Riequilibrio del Comune di Messina è occupata quasi esclusivamente dai suoi aspetti contabili e normativi. Inspiegabilmente ne vengono lasciati in disparte, un po’ da tutti, gli aspetti politici e sociali. Eppure questi non sono meno importanti dei primi, anzi li presuppongono, se è vero che sono politiche e politico-economiche le ragioni che ci hanno condotto a dovere affrontare questi temi con tanta drammaticità e con la sensazione, ormai condivisa da molti, di essere di fronte ad una sorta di ultima spiaggia, ad un passaggio epocale, ad un “redde rationem”, cui non si può sfuggire, che chiama in causa tutti.
Senz’altro la crisi degli enti locali può essere assimilata alla più generale crisi economica, che riduce la base dalla quale estrarre quanto necessario per il welfare, generale e locale. Se “Mani pulite” e il processo a Tangentopoli nascono per fermare l’eccesso di corruzione non più sostenibile al tempo della crisi, la risposta delle elite politiche è stata nascondere il debito in un sistema esternalizzato di gestione dei servizi pubblici e nel sistema commissariale degli appalti. Secondo Ivan Cicconi, uno dei maggiori esperti di appalti pubblici in Italia, se prima il sistema dei partiti, attraverso 5-6 tesorieri, governava e spartiva tutto, nella seconda repubblica si è assistito al formarsi di decine di migliaia di consigli d’amministrazione. “A 5-6 ladri si sono sostituiti decine di migliaia di mariuoli”, dice Cicconi. Non si può certo dire che tutti i componenti di tutti i consigli di amministrazione fossero corrotti, ma quel sistema è stato di certo funzionale per continuare a gestire clientele e corruzione.
Oggi il debito, prima nascosto, sta riemergendo. Sta riemergendo il debito delle partecipate, sta riemergendo il debito legato al ciclo dei rifiuti, sta riemergendo il debito legato al sistema degli appalti e dei commissariamenti. Questa enorme massa debitoria distribuita negli enti pubblici è stata ulteriormente accresciuta dalla progressiva riduzione dei trasferimenti dallo stato agli enti locali (il cui peso è stato in parte mitigato per i bilanci comunali dall’obbligo di far pagare per intero ai cittadini una serie di servizi, cosa che ha aggravato ancor di più il grado di incapienza di tante famiglie). L’insieme di questi fattori ci si presenta di fronte con la forma di un macigno da sollevare come destino ineluttabile.
Eppure lo capirebbe anche un bambino che imprimere nei 10 anni a venire una trama di sacrifici fatta di aumenti delle tariffe e riduzione progressiva dei servizi, di penuria monetaria e bilanci pubblici recessivi ha il carattere delle sanatoria e del riconoscimento delle politiche che ci hanno condotto fino a questo punto, soprattutto se tutto questo avviene riscrivendo quella storia, considerando quel fardello da pagare non la risultante di politiche dell’austerità imposte dall’esterno e malgoverno locale, ma il giusto compenso a chi ha già fornito il proprio lavoro senza essere stato per quello retribuito.
Ma non è possibile costruire una politica di risanamento e al contempo denunciare quanto accaduto e quanto accade sullo scenario globale? No, non si può fare. Non si può fare perché il grado di decozione (è questa l’espressione che la Corte dei Conti utilizza per i bilanci del Comune di Messina) è tale per cui al Governo centrale e alle sue articolazioni contabili ci si può presentare solo col cappello in mano per sperare che le misure di risanamento assurgano da mere fantasie a prospettive credibili. Non si può fare perché la minorità politica del soggetto attuatore del Piano di Riequilibrio è tale per cui le maggioranze di fatto possono essere disponibili a consentire il prosieguo del percorso solo nella misura in cui questo non appaia anche come una critica politica del passato e dell’esistente governativo, ma anzi, piuttosto, un percorso condiviso di pacificazione tra quellicheceranoprima e quellidiadesso.
E’, quindi, lo strumento in sé, Il Piano di Riequilibrio, che mette sotto scacco la rivoluzione promessa. Ancora più, forse, delle misure recessive e antipopolari, è la subalternità politica che compromette ogni possibilità di cambiamento (per quelle parti, naturalmente, del soggetto attuatore del Piano di Riequilibrio che hanno pensato e pensano ad un cambiamento reale, dal basso come si diceva una volta). La soggezione verticale imposta dal grado di impoverimento dell’ente e l’oggettiva minorità numerica chiudono dentro una gabbia che imprigiona qualsivoglia velleità, trasformando la politica locale in un eterno presente privo di qualsiasi visione politica che non sia l’alchimia contabile e normativa.
Il vero atto propedeutico ad una politica di cambiamento sarebbe stato, quindi, liberarsi dall’obbligo del risanamento. Questo avrebbe significato togliere, di colpo, a tutti la possibilità di qualsiasi forma di ricatto politico. Sarebbe stato giusto lasciare a chi responsabile è la responsabilità di affrontare gli indignati dalle politiche dell’austerità e, magari, con questi provare, amministrando, a costruire un futuro più giusto! Si sarebbe potuto, così, lasciare il passato a rendere conto, politicamente, di quanto causato e abbracciare un presente nuovo capace di inventare, per il tempo a disposizione, un’alternativa vera. Quel tempo sarebbe rimasto nella storia della nostra città.
Gino Sturniolo, Nina Lo Presti, Antonio Mazzeo, Tania Poguisch, Clelia Marano, Angela Rizzo, Francesca Fusco, Mariano Massaro, Maurizio Rella, Sergio Soraci, Daniele David, Antonio Currò, Enzo Bertuccelli, Marco Letizia