Francantonio Genovese, in carcere solo andata

Il fatto. l Giudici del Tribunale della libertà di Messina (Genovese, Silipigni e Smedile) hanno rigettato l’appello proposto dal difensore di Francantonio Genovese, confermando la decisione emessa dai Giudici del Collegio giudicante, a seguito della istanza di scarcerazione, o di attenuazione della misura in carcere, formulata all’indomani della entrata in vigore delle nuove disposizioni in materia cautelare. Francantonio Genovese, dunque, deve continuare a restare in cella, anche se, oggi ancor più di ieri, il mantenimento della custodia cautelare in carcere, avendo funzione meramente residuale, si giustifica solo in presenza di esigenze di natura, a dir poco, eccezionale. Tutto ciò che è accaduto, e quello che avviene sotto i nostri occhi, avrebbe una spiegazione. Non ci deve essere un’aria di sfida, uno spirito di rivincita: da questa storia chi ne esce sconfitto irreparabilmente, se la dimostrazione di colpevolezza non è schiacciante, è quel tanto di fiducia che la gente ha ancora, nonostante le oscure vicende che ogni giorno animano la cronaca, in chi indossa la toga. Questa è una vicenda che esce fuori dalle aule e di giustizia e che fa discutere su regole e applicazioni delle stesse. Se alla applicazione del diritto si sostituisce la logica del mantenimento dello stato attuale delle cose, se risulta più facile condividere precedenti decisioni senza motivare, con lo scrupolo necessario, circa le ragioni del rigetto, se si giunge a travisare il senso di un parere reso dalla pubblica accusa, quando si perde di vista la centralità della Persona che la misura subisce, guardando, piuttosto, alle possibili conseguenze che una decisione a essa favorevole potrebbe comportare, se si preferisce non adottare una decisione "fuori dal coro", allineandosi alle precedenti – a detta della difesa di Genovese – altrettanto errate, se si stravolge la finalità della misura cautelare, trasformandola in una vera e propria anticipazione di pena, se e quando tutto questo accade c’è da chiedersi se il fallimento è del difensore che, con ostinazione ma nel rispetto delle regole, continua a rivolgere motivate istanze, ovvero del sistema giudiziario che non è in grado di uscire da quella situazione di stallo cui, esso stesso, ha dato origine. Al di là di ciò che si pensa su Genovese politico, Genovese imprenditore, non posso non riconoscere e guardare con estrema sensibilità, lo stato d’animo di uno che si sente innocente e perseguitato, travolto da un ingranaggio allucinante, dal quale è quasi impossibile difendersi. Perché oggi è scomodo chiamarsi Francantonio Genovese. Come conferma lo stesso avvocato difensore Nino Favazzo: “Ricordo che, qualche mese addietro, un Giudice che – appresi dopo – si accingeva ad adottare uno dei provvedimenti di rigetto nei confronti di Genovese, mi consigliava di essere meno passionale e coinvolto, in una parola, più distaccato. Feci presente che non avevo ancora perso in lucidità e tentai di spiegare al mio interlocutore – non credo di esserci riuscito – che il coinvolgimento e la passione dedicata al caso, contrariamente a quanto si poteva pensare, non erano motivati da più che legittime aspirazioni professionali, ma discendevano direttamente dal mio profondo senso di giustizia, che non ha mai tollerato e non tollera decisioni ingiuste, soprattutto quando si traducono in provvedimenti cautelari inutilmente afflittivi. Se è all’esito del processo che occorre stabilire se una pena deve essere applicata, prima della sentenza definitiva, la carcerazione preventiva deve essere maneggiata con estrema cautela, limitandosi con essa un diritto costituzionalmente garantito. Coerentemente, quindi, non ho raccolto quel garbato invito e mi ostino ancora oggi a sostenere le ragioni di Francantonio Genovese, al momento, ma non solo, in sede cautelare. Mentirei a me stesso se dicessi che resto insensibile di fronte al reiterarsi di quella che ritengo essere una ingiustificata e non più accettabile aggressione al diritto alla libertà di un uomo, inutilmente e senza ragione, ristretto in carcere. Ma per mia fortuna, ancora, continuo a non rassegnarmi e trovo stimolo e conforto al mio operare ricordando un noto e sempre attuale adagio: quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere". Il punto di domanda è: non vi sembra che si stia esagerando? E lo scrive uno che ha condotto aspre battaglie per veder trionfare la Giustizia. Non mi sono mai nascosto e ho sempre pagato per aver detto ciò che penso: l’ipocrisia non mi appartiene. Credo fortemente nella Legge uguale per tutti! Solo così si può avere la certezza che se, malauguratamente, si va davanti a un tribunale, il giudizio non sarà ispirato dalla difesa di una corporazione, o del Sistema, ma dal rispetto del codice. Ho provato sulla mia pelle che spesso così non è – certi processi, non mi riferisco solo al caso Genovese – mi hanno confermato che la verità è spesso calpestata. La dignità infangata. Per sgombrare il campo da equivoci aggiungo che io mi onoro di appartenere a una generazione cresciuta con il mito di Mani Pulite, ma purtroppo sappiamo pure come è finita: più che alla moralizzazione dei costumi, qualcuno, più di uno, ha pensato alla carriera. Le inchieste lo hanno aiutato a entrare in politica, tradendo così la fiducia che noi giovani degli Anni Novanta avevamo riposto in loro. Noi chiedevamo solo il rispetto delle regole. A che cosa si rifaranno quei ragazzi che entrano adesso nelle redazioni, nell’università, nelle istituzioni? Che esempi abbiamo da proporgli, in questi tempi in cui le carriere sono determinate, quasi sempre, da meriti che poco hanno a che fare con la fatica di ogni giorno? Ho sempre pensato che, nella quotidianità, c’è un rischio inevitabile: il contrasto col potere, il cosiddetto “muro di gomma”. Ma forse proprio in questo c’è la dignità: è possibile sempre dire, io non sono d’accordo. Ecco perché oggi do spazio alla difesa di Francantonio Genovese e condivido il pensiero dell’avvocato Favazzo: quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere. Anche se non voglio pensare a una congiura, ma piuttosto a delle insufficienze.