di ANDREA FILLORAMO
Penso che a distanza di più di un mese dall’uscita di scena dell’arcidiocesi messinese di quello che fu suo arcivescovo e archimandrita, cioè di Mons. Calogero La Piana, finita la “quarantena” che ha costretto tutti a riflettere sul trauma istituzionale che ha subito la diocesi, che ancora non ha un vescovo titolare, occorre “tirare i remi in barca” e chiederci che cosa è veramente successo all’interno del palazzo arcivescovile di Messina. Ciò affinché quello che è avvenuto allora non accada più. Mai, cioè, dovrà avvenire che un vescovo, a 63 anni, si dimetta o per scelta personale o perché obbligato; da chi e perché? Accontentiamoci di quanto egli stesso ci ha detto, cioè che si è dimesso per motivi di salute, anche se molti non credono. Curiosiamo, quindi, all’interno di quel palazzo con un attento sguardo retrospettivo. Che cosa notiamo? Scopriamo innanzitutto un turnover dei segretari del vescovo, che senza apparente ragione si sono susseguiti l’uno all’altro. Vediamo, poi, che il Vicario Generale improvvisamente si è dimesso ed è stato destinato dal vescovo alla parrocchia più prestigiosa della diocesi, quella di Taormina, tolta a chi ne aveva diritto. Quella di segretario del vescovo e quella di Vicario Generale, lo sappiamo, sono funzioni delicatissime, che, non possono e non devono avere scadenze, godono della massima fiducia del vescovo, condividono il suo progetto pastorale, gestiscono la sua agenda. Diciamolo pure: sono la sua “longa manus”. A questo punto, è lecito chiederci: “segretari e vicario si sono dimessi o sono stati dimessi?”. Nell’uno e nell’altro caso, è lecito chiedersi il perché. A questa domanda non è stata data dall’arcivescovo nessuna risposta, dando adito così a tanti pettegolezzi, che non smettono ancora di circolare e non solo presso il clero. Il palazzo, quindi, non aveva quelle “pareti di vetro” che dovevano garantire la trasparenza. Sembra che La Piana, in buona fede, abbia amato fare tutte le sue scelte che riguardavano la gestione della diocesi, in piena solitudine. Da “uomo solo”, perciò , egli decideva trasferimenti, promozioni, bocciature, premi e castighi, così come faceva quando era ispettore salesiano. Talvolta usava, per avere una pronta ubbidienza anche le minacce. Alla “discrezionalità” concessa, in alcuni casi, dai sacri canoni egli non poneva limiti e non pensava che se essa fosse diventata “ad libitum”, avrebbe causato rancori, gelosie, invidie. Ciò, infatti, è avvenuto molte volte, Non intendo tornare sulle accuse fatte a La Piana, come quella dell’eredità Bertolami, della Casa del Clero o della chiusura dell’Istituto delle Scienze Religiose. Di questi fatti si è parlato troppo e credo sia necessario tacere. Quanto scrivo adesso, l’ho scritto più volte senza essere ascoltato, proprio in questo giornale. Mi preme sottolineare un aspetto fin’ora non evidenziato: nella conferenza stampa del suo commiato l’arcivescovo emerito ha definito Messina “una città senza identità, degradata”. Mi permetto di chiedere: cosa ha fatto il vescovo La Piana per rendere questa città più vivibile? Ritiene ancora come sosteneva il 13 gennaio 2009, in un’intervista concessa al giornalista Mauro Cucè, della Gazzetta del Sud che la città era in mano, ai “massoni storici”, che controllavano tutto e tutti, impedendone lo sviluppo e la crescita? In quella intervista, l’Arcivescovo individuava, infatti, alcuni elementi che minavano, a suo parere, le fondamenta della società attuale: il senso di sfiducia della gente nei confronti delle istituzioni; il degrado della città che non trova alcuna soluzione istituzionale; l’assenza di una vera cultura politica; gli scandali quotidiani. Insomma, l’arcivescovo, in buona fede ma con superficialità, accusava la massoneria di essere la causa di tutto il degrado “morale”, “istituzionale”, “sociale”, ambientale” della città, e non individuava altre cause e altre responsabilità. Trovava, quindi, il capro “espiatorio”. Non si rendeva conto che dava un “alibi” a quanti si dovevano addossare la “colpa” del disastro operato nella città, che non può essere solo dei massoni. Giustificato, quindi, è apparso l’intervento, del gran maestro Pruneti, che si chiedeva quale fosse il nesso causale che rendeva certa la responsabilità della massoneria e di quale massoneria egli parlasse. L’arcivescovo non ha risposto, non conosceva ancora le cause del degrado della città. Adesso, a distanza, di anni, ci chiediamo se dopo l’esperienza acquisita nella gestione amministrativo-pastorale di una grande diocesi, nell’appalto di chiese, nella compravendita di beni e prodotti della diocesi, nell’affidamento di incarichi che non sono solo quelli parrocchiali e altro ancora, ha individuato le vere cause del “disastro” messinese.