DOPO PARIGI, L’OCCIDENTE è DISPOSTO A COMBATTERE E MORIRE?

Dopo i gravi fatti terroristici di Parigi del 13 novembre scorso, è necessario fare alcune riflessioni, per capire cosa siamo e soprattutto se siamo disposti a combattere. Dopo le prime inevitabili emozioni e reazioni alla mattanza di uomini e donne del jihadismo islamista nelle strade di Parigi, molti hanno gridato, “Siamo in guerra”. L’hanno dovuto ammetterlo perfino i più acerrimi utopisti, aggrediti all’improvviso dalla realtà, come il presidente Francoise Hollande. Passato qualche giorno, gli opinionisti, i politici, e tanti altri, hanno iniziato a fare i primi distinguo, su cosa è più giusto fare. Attenzione stiamo parlando di una guerra che l’Occidente potrebbe vincere tranquillamente, perché possiede le migliori armi e le migliori tecnologie. Ma è una guerra che può perdere, anzi, forse, l’ha già persa, “perché gli manca l’essenziale”, scrive il professore Massimo Introvigne: “una spiritualità della guerra”.
I terroristi, da al-Qaida all’Isis, lo ripetono da tempo: “vinceremo noi, perchè voi amate la vita e noi amiamo la morte”. Per loro farsi esplodere o cadere in uno scontro con la polizia è una forma di martirio, che assicura la gloria in terra e il paradiso in Cielo. Infatti,“L’Occidente moderno considera la morte in battaglia inaccettabile. Tutti i governi democratici cercano di fare la guerra con la sola aviazione, o meglio ancora con i droni senza piloti, perché sanno che un intervento militare di terra comporterebbe dei caduti. E soldati che tornassero in patria in una bara avvolta da una bandiera nazionale farebbero perdere le elezioni al governo che li avesse mandati a combattere in terre lontane”.(Massimo Introvigne, “La loro forza è nella morte per Allah. E la nostra?”, 22.11.15, LaNuovaBQ.it)
Probabilmente a questo punto per noi occidentali, l’alternativa non è più fra l’avere o non avere morti ammazzati, ma la scelta è “su chi dovrà morire: i soldati sul campo o i civili che vanno a cena in un ristorante, a una partita di calcio o ad ascoltare musica in un teatro”.
Pertanto se c’è una guerra, e pare che sia proprio così, i primi in assoluto che dovrebbero combatterla anche se hanno anche loro una mamma, sono i soldati. Certamente noi siamo abituati a vederli come quelli che sono impiegati nelle missioni di pace, tutto vero. “I militari non sono questo, o per lo meno non sono solo questo. La loro missione comporta affrontare la morte, e anche dare la morte in battaglia, con lealtà e senza odio”. E’ evidente che al nostro mondo ci manca quella merce rara che è lo spirito militare. Il pensatore brasiliano Plinio Correa de Oliveira, nella sua classica opera, “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione”, vedeva nel venir meno di questo spirito una caratteristica saliente del processo di abbandono del cristianesimo che chiamava Rivoluzione. La divisa militare, scriveva: “La divisa militare, scriveva, «con la sua semplice presenza, afferma implicitamente alcune verità, a quanto generiche, ma per certo di natura contro-rivoluzionaria. L’esistenza di valori superiori alla vita e per i quali si deve morire», il che è contrario alla mentalità moderna, «tutta fatta di orrore per il rischio e per il dolore, d’adorazione della sicurezza e di grandissimo attaccamento alla vita terrena. L’esistenza d’una morale, perché la condizione militare è totalmente fondata su ideali d’onore, di forza posta al servizio del bene e rivolta contro il male e così via». Qui occorre fare una necessaria distinzione tra la forza e la violenza. Noi che siamo cristiani anche nelle guerre non dovremmo usare la violenza che è “intrinsecamente sovversiva e immorale, perché non opera al servizio dell’ordine ma per sovvertirlo. La forza, [invece], dopo il peccato originale, è necessaria e legittima. Difende il debole mettendo l’aggressore in condizione di non nuocere, se necessario dando la morte e affrontando la morte”. Peraltro, per un cristiano, salvare la propria vita non dovrebbe essere il valore supremo, non per nulla la Chiesa ha canonizzato migliaia di martiri, non solo, ma anche qualche centinaio di militari, che hanno combattuto, hanno dato la morte e qualche volta sono morti in battaglia. A questo proposito recentemente, Il 26 aprile 2009, Benedetto XVI ha canonizzato San Nuno Alvares Pereira, non è un calciatore, morto nel 1431 e figura decisiva per l’indipendenza del Portogallo dalla Spagna. San Nuno era un generale, che ha sempre combattuto in prima fila e pare che abbia personalmente ucciso circa cinquemila persone, “certamente il santo diede la morte a molti nemici. Passò gli ultimi anni di vita in un convento, ma di lì continuò a far giungere consigli ai portoghesi su come fare la guerra. Nel l’omelia della canonizzazione, Benedetto XVI chiarì che San Nuno non era stato canonizzato «nonostante» fosse stato un militare, avesse combattuto e avesse ucciso nemici, ma perché era stato un buon militare, e un militare santo”. (Ibidem)
Qualcuno osa scandalizzarsi? Fatelo pure, ma sappiate che “C’è una vera spiritualità della vita militare e della guerra. Una spiritualità che non ama la guerra, non la cerca, preferisce la pace. Una spiritualità che non odia i nemici, sa che sono anche loro figli di Dio e fratelli in Cristo, eppure assume la necessità di combatterli lealmente come una croce e una dolorosa missione. È la stessa spiritualità dei poliziotti e dei carabinieri, che portano le armi e qualche volta devono usarle per proteggere gli onesti contro i malviventi, dei giudici che devono pronunciare severe condanne e qualche volta – lo sappiamo bene in Italia – rischiano anche loro di pagare con la vita” (Ibidem). È la spiritualità dell’eroismo, e l’eroismo consiste precisamente nel sapere che ci sono valori per cui vale la pena di combattere e di morire. Se l’Occidente, e anche tanti cristiani, hanno perso questa spiritualità, e neppure sono più in grado di capirla, allora bin Laden aveva ragione, e anche l’Isis ha già vinto.

Domenico Bonvegna
domenico_bonvegna@libero.it