LA RESISTENZA ALLO STATO MODERNO. IL BANDITISMO, L’INSORGENZA, E IL BRIGANTAGGIO

Difficilmente si trova un libro dove si affrontano tre realtà complesse come il banditismo, l’insorgenza e il brigantaggio, fenomeni che hanno caratterizzato la storia di almeno tre secoli del nostro paese, dal XVII al XIX secolo. E’ riuscito a farlo Francesco Pappalardo, studioso e storico in un agile pamlhet, “Dal banditismo al brigantaggio. La resistenza allo Stato moderno nel Mezzogiorno d’Italia”, edito dalla battagliera casa editrice D’Ettoris Editori, di Crotone nel 2014.
“Può apparire forzata – scrive Pappalardo nell’introduzione – la scelta di riunire in un’unica trattazione i banditi, gl’insorgenti e i briganti, per di più accumunati non dall’aspetto eversivo che comunemente evocano nell’immaginario collettivo ma dalla resistenza, più o meno consapevole, da essi opposta in tempi diversi allo Stato moderno nascente o in via di affermazione”. Infatti se l’insorgenza del popolo italiano contro le armate francesi di Napoleone nel 1799, è poco nota al grande pubblico, a causa del lungo silenzio imposto dalla storiografia ufficiale, banditismo e brigantaggio, spesso sono confusi tra loro e vengono inclusi nell’ampia categoria della delinquenza comune, al massimo abilitati, come forma di protesta sociale primitiva. Nel libro Pappalardo lega a un filo rosso banditi, insorgenti e briganti, cioè figure apparentemente molto diverse fra loro: è quello della resistenza, più o meno consapevole, da essi opposta in tempi differenti allo Stato moderno nascente o in via di affermazione. Mentre il banditismo è un fenomeno a metà strada fra l’opposizione passiva e la sollevazione popolare, che raccoglie fra i secoli XVI e XVII soldati disoccupati, disobbedienti fiscali, fuorusciti, protagonisti di conflitti tra fazioni e nobili impoveriti o preoccupati per l’invadenza statale, l’Insorgenza (1792-1814), cioè l’insieme delle resistenze contro la Rivoluzione e contro il regime di Napoleone Bonaparte in Italia e in Europa, è una vera sollevazione popolare. Anche il brigantaggio postunitario è una realtà complessa, in cui rientrano
la fedeltà dinastica e la resistenza all’invasore, l’opposizione alla coscrizione obbligatoria e alla pesante fiscalità, antiche tensioni sociali e l’inevitabile delinquenza. Per l’autore del libro sono tre momenti distinti ma collegati fra loro e importanti per la storia della nostra Penisola.
I Banditi.
Nel 1° capitolo, dedicato appunto ai banditi, originali e interessanti le riflessioni sulle numerose rivolte verificatesi in Europa, tra il XIV e il XIX secolo. Pappalardo può sostenere che tutte mostrano un attaccamento del popolo e dell’aristocrazia ai propri diritti, infatti secondo lo scrittore cattolico, “le rivolte esprimono spesso una forte insoddisfazione contro l’accentramento delle strutture di governo”. E citando Giovanni Cantoni, sono “per un certo verso, preinsorgenze non contro lo Stato moderno nella sua maturità[…]bensì contro ogni fase di formazione di tale Stato moderno”.Tuttavia si tratta “di manifestazioni di insofferenza del corpo sociale nei confronti d’ingiustizie, imputate a singoli e intese non a modificare strutture ma a correggere appunto le ingiustizie”.
Pertanto, queste rivolte popolari,“ si distinguono dalle rivoluzioni, che formalmente prendono di mira persone ma nella sostanza perseguono un cambiamento violento delle strutture e la costruzione di un nuovo ordine sulla base di un programma ideologico”. In pratica secondo lo storico Mousnier, i contadini in rivolta,“erano furiosi, ma non rivoluzionari”. E’ dello stesso parere lo storico inglese sir John Elliot, che ritiene anacronistico parlare di “rivoluzioni” durante l’Antico regime, applicando le nozioni di ideologia o di lotta di classe, la gente non era ossessionata dalla ricerca dell’innovazione ma, “[…]dal desiderio di ritornare a vecchi costumi e privilegi, e ad un antico ordine sociale”. Ecco perchè gli storici, in relazione alle rivolte del XVII secolo nel Mezzogiorno d’Italia, le leggono, “come affermazione del diritto di resistenza contro comportamenti considerati tirannici da parte di chi esercitava la sovranità e suggeriscono di sostituire la categotia di ‘rivolta’ con quella di ‘resistenza’”.
Pappalardo nel libro dà conto delle diverse interpretazioni che si sono date al fenomeno del banditismo, citando diversi storici e sociologi, che hanno scritto sull’argomento come John Hobsbawn, Raffaele Nigro e Rosario Villari, ma anche Giuseppe Galasso. Tutti concordi sulla varietà e complessità del fenomeno.“I banditi, non sono mai contadini poveri, vanno infine distinti dai vagabondi, dagli oziosi, dagli ambulanti, dai girovaghi, dai contrabbandieri, cioè da quanti erano privi di lavoro stabile e di fissa dimora…”.
Naturalmente Pappalardo, ha consultato e studiato diversi testi, così ha potuto rilevare le caratteristiche generali di certe rivolte scoppiate nei vari periodi storici, in particolare nei secoli XVI e XVII. Per esempio, la rivolta capeggiata da Tommaso Aniello (1620-1647), detto Masaniello, qui la popolazione non intendeva “[…]chiedere né ottenere la soppressione del regime feudale, ma solo il suo contenimento entro i limiti della legalità, della tradizione e dell’equità”. In pratica secondo Pappalardo, non viene messo in discussione il ruolo della regalità, che, invece, ne esce rafforzato. Piuttosto si intendeva mettere in discussione “la crescita smisurata dell’apparato amministrativo e burocratico: ‘Viva il Re, mora il malgoverno”. Infatti spesso le rivolte possono essere considerate come scrive lo storico Paolo Prodi,“come estremo tentativo di lotta delle forze particolaristiche locali contro l’invadenza maggiore dello Stato”.
Gli insorgenti. La storia dei vinti.
Il 2° capitolo del libro è dedicato agli insorgenti, quei popoli italiani che tutti insieme presero le armi contro gli eserciti francesi che hanno invaso l’Italia nel 1799. Prima di entrare nel merito delle rivolte, Pappalardo si sofferma sul contesto. Siamo negli anni del dopo Rivoluzione Francese, che aveva abolito la società degli ordini e sancito il livellamento dei sudditi, la persona viene spogliata di tutto, non entra più in contatto con il potere statale perchè membro di una famiglia, di una corporazione, di un ordine, ma direttamente come individuo isolato, come scrive Francoise Furet, il 4 agosto, all’Assemblea Nazionale Costituente, si fa tabula rasa, si liquida tutti i poteri intermedi che possono esistere tra l’individuo e il corpo sociale. “La Rivoluzione Francese segna, dunque, lo spartiacque fra due mondi radicalmente diversi”.
La storia degli insorgenti “è una storia dei vinti, non solo materialmente, quanto culturalmente. Perchè l’Insorgenza è stata rimossa dalla storia patria e, quindi, dalla memoria storica degli italiani”.
Pappalardo inizia a dare conto come è stata interpretata a cominciare dai cronisti, riportando la testimonianza del domenicano Antonino Cimbalo, testimone oculare della spedizione del Cardinale Fabrizio Ruffo di Baranello (1744-1827), forse l’insorgenza più importante, quella meno frammentaria. Ma soprattutto più meditata è l’opera cronachistica di un altro testimone oculare, il siciliano Domenico Leopoldo Petromasi. Egli descrive la marcia dell’esercito della Santa Fede dalle Calabrie a Napoli.
Il carattere della radicalità del conflitto viene colto sia nel versante rivoluzionario da Vincenzo Cuoco, che individua le ragioni del fallimento della Repubblica Napoletana, che sostanzialmente i giacobini avevano operato non tenendo conto della storia e delle tradizioni del regno. Ma anche nel campo legittimista dall’abate Domenico Sacchinelli, ma soprattutto da Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa.
Per il momento mi fermo alla prossima. 

Domenico Bonvegna
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