L’Italia con le classifiche internazionali è sempre a disagio: dalla World Bank che ci relega al 45 posto del "Doing Business" dietro Messico, Macedonia, Bielorussia o Ungheria, fino alla rivista US News and world report che mette al piano posto fra le note motivazionali che "il Paese è piegato dalla criminalità organizzata e dalla corruzione" come se vivessimo in una specie di far west. Ora ne esce un’altra, di classifica, che è ancora una volta imbarazzante ma almeno è corroborata da un metodo di analisi di rara pignoleria e profondità analitica: il "Rapporto sulla competitività 2016" del World Economic Forum, quello di Davos, si basa su una ricca serie di parametri (114 suddivisi in 12 capitoli) che valutano ogni settore della vita economica di 138 Paesi: per arrivare a coprire tutti quelli dell’Onu, annotano meticolosamente gli estensori, mancano solo «perché non si è riusciti a raccogliere dati affidabili» Guinea, Guyana, Haiti, Myanmar, Seychelles e Swaziland. Però è entrato in classifica il Congo. L’Italia occupa la piazza numero 44, alle spalle di diretti concorrenti come Germania (al quinto posto), Francia (21 ) e Spagna (32 ), ma anche di improbabili antagonisti come Thailandia, Lituania, Azerbaijan, e perfino la Russia dell’era delle sanzioni e della crisi petrolifera. Proprio la Russia, paradosso nel paradosso, ci ha sorpassato nell’anno (il 2015) in cui è precipitata in recessione conclamata mentre noi ne uscivamo. Com’è possibile? «Noi non esprimiamo giudizi di merito – puntualizza Attilio Di Battista, uno dei dodici economisti di tutto il mondo che hanno redatto il rapporto – ma ci basiamo sulle interviste condotte con i capi azienda di tutti i Paesi, perché riteniamo che proprio loro siano in grado di valutare con consapevolezza le condizioni di competitività entro cui operano. Quest’anno sono stati 14mila di cui 122 in Italia. Per completare il giro di opinioni, verifichiamo anche cosa avevano detto i Ceo intervistati l’anno precedente, 90 in Italia solo in minor parte coincidenti con quelli di quest’anno». Gli elementi così ottenuti in ogni angolo del pianeta con l’ausilio di primarie istituzioni economiche locali (per l’Italia la Bocconi), vengono shakerati con una serie di algoritmi e di criteri che cerchiamo di riassumere, con una premessa: a quanto sembra di capire, quello che conta è la velocità del cambiamento, capitolo per capitolo, e quando un aspetto importante si muove con rapidità è in grado di compensare anche punti di marcata e perdurante debolezza. Ecco i dodici capitoli, con l’indicazione delle sotto-voci più significative, dove sarà facile individuare quelle dove l’Italia – a giudizio dei Ceo interpellati – è più deficitaria e "rovina" tutto il lavoro fatto in altre sub-sezioni come il mercato del lavoro, il potenziamento delle infrastrutture o la promozione delle start-up che hanno lusinghieri punteggi: 1. Tenuta delle istituzioni. qui è basso il punteggio in fiducia nei politici, indipendenza della magistratura, sprechi nel government spending, peso della burocrazia, efficienza del quadro legale nella composizione delle controversie, costi del crimine e della comizio-ne. Il punteggio peggiore è alla voce "Favoritismi nelle decisioni dei dirigenti pubblici". 2. Infrastrutture. È un punto di. forza, con buoni punti quasi dappertutto (qualità di strade, aeroporti, ferrovie, un po’ meno nei porti). 3. Ambiente macroeconomico. Qui c’è un crollo verticale perché due delle voci si chiamano "debito pubblico" (anche se viene riconosciuta la stabilizzazione) e "rating internazionale". 4. Salute ed educazione primaria. Ci risolleviamo non poco, arrivando al 5 posto mondiale per aspettativa di vita, e anche come qualità della scuola e dei servizi sanitari siamo sopra la media. 5. Università e training. Nuovamente in fondo alla classifica in voci come la qualità della formazione in matematica o l’accesso a Inter-net nell e scuole superiori. 6. Efficienza del mercato. Cadiamo a picco nel tempo di apertura di un business, nell’effetto delle tasse sugli investimenti, e anche nell’efficacia delle politiche anti-monopolistiche. 7. Mercato dei lavoro. Anche se il Jobs act ci aiuta, molto carenti sarebbero anche la flessibilità nella determinazione degli stipendi, le relazioni industriali, le pratiche di assunzione, ovviamente la produttività, la capacità di trattenere i talenti e anche la partecipazione femminile al mondo del lavoro. 8. Mercati finanziari. Nuovi score negativi sui servizi finanziari, sulla facilità di accesso al credito, sulla disponibilità di venture capital sul finanziamento tramite il private equity "locale" e neanche a dirlo sulla solidità del sistema bancario. 9. Tecnologia. Decente il punteggio sulla "disponibilità delle più recenti tecnologie", ma carenti sia l’accesso alla banda larga che il "trasferimento tecnologico". 10. Dimensioni del mercato. Buono l’inserimento sui mercati internazionali per la forza dell’export ma basso l’indice sulle "dimensioni del mercato domestico". 11. Evoluzione del business. E significativo il punteggio bassissimo a una voce specifica, "Volontà di delegare il comando", che sembra fatta apposta per castigare le difficoltà nei passaggi generazionali così diffuse specie nelle Pmi. 12. Innovazione. Insoddisfacente il livello della spesa delle aziende per ricerca e sviluppo, della modernizzazione della pubblica amministrazione, della collaborazione fra scuola e impresa. Fin qui i capitoli considerati. II loro peso sulla media finale però non è aritmetico. I Paesi sono stati divisi dal Wef in cinque classi, a seconda del livello di sviluppo (calcolato anche ma non solo in base al Pil pro capite) e l’Italia è nella quinta, la migliore. Stare in serie A però comporta un obbligo, spiega ancora Di Battista: «Sulle due ultime categorie, innovazione e sofisticazione del business, occorre spingere di più. Questi due "pilastri" da soli valgono infatti il 30% del punteggio totale. Le voci dalla quinta alla decima valgono poi il 50% e le prime quattro il 20%. Queste percentuali variano a seconda della classe in cui è inserito un Paese e anche a volte all’interno di una classe». Prendiamo la Russia, oggetto del contendere, che si trova nella classe 2 (la nostra è la 5), quella dei Paesi "in transizione" «I primi 4 punti, i requisiti base di tenuta delle istituzioni, di affidabilità, le condizioni macroeconomiche e anche il sistema sanitario e scolastico, lì valgono il 40% perché il Paese ha bisogno di rafforzarsi strutturalmente e di dimostrare tenuta democratica. Così si è finito col dare meno importanza ai fattori di innovazione e sofisticatezza imprenditoriale, aree in cui la Russia per forma relativamente peggio. E in India (una classe ancora indietro, ndr) le prime quattro voci valgono il 60%». Qualunque sia il giudizio scientifico di questa metodologia, il Wef avverte che la considera soggetta a cambiamento. Nel rapporto stesso infatti è chiarito che dall’anno prossimo sarà abbandonata la distinzione tra i vari stadi di sviluppo e sarà assegnato uguale peso ai 12 pilastri della competitività per tutti i Paesi. «Inoltre, ci sarà un cambiamento sostanziale degli indicatori inclusi nel calcolo del nostro indice, soprattutto per quanto riguarda l’area dell’innovazione e dello sviluppo del mercato finanziario», conclude Di Battista. Per ora, probabilmente conviene prendere questa classifica come un memento sulle cose da fare subito per rimuovere le barriere residue e attrarre sempre più investimenti di successo nel nostro Paese.
tratto da "La Repubblica" di Eugenio Occorsio