LA CONTRAPPOSIZIONE POLITICA DEL NOSTRO LUNGO DOPOGUERRA

Il grande risultato della vittoria del “NO” nel referendum del 4 dicembre sulla riforma della Costituzione, un risultato straordinario per la grande partecipazione popolare, hanno votato circa il 68% degli aventi diritto. Per tutti unanimemente è stata una grande manifestazione di democrazia del popolo italiano. Un voto che probabilmente passerà alla Storia del nostro Paese, come uno “schiaffo” ai poteri forti, alla classe politica “drogata”, al governo Renzi eletto da nessuno, ma anche a una élite culturale che si allontana sempre più dalla realtà e che continua a non capire il popolo. Per questo motivo Luca Telese, su “La Verità”, ha scritto:“Tutto il modello di consenso dell’Occidente è in crisi. Ovunque è popolo contro élite”. Lo ricorderanno a lungo i progressisti radical chic questo 2016:la prima mazzata l’hanno presa con la Brexit, “dopo è venuto il ciclone Trump, che non ha sconfitto solo Hillary Clinton ma anche e soprattutto le forze immense che sostenevano la candidatura della rivale: grande stampa, banche, Hollywood, università”. Pertanto visto che il popolo vota contro il sistema, qualcuno è arrivato a ipotizzare, a teorizzare la fine del suffragio universale. Il sistema democratico inizia ad essere un problema.
Sicuramente quello che è successo il 4 dicembre è una sorta di insorgenza popolare, è probabile che sarà studiato e commentato in tanti libri, come gli avvenimenti che hanno ricostruito Gennaro Sangiuliano e Vittorio Feltri, in “Una Repubblica senza Patria. Storie d’Italia dal 1943 ad oggi”, pubblicato da Mondadori nel 2013. Un testo chiaro, semplice da leggere, coinvolgente e a volte irritante, una ricostruzione sintetica dove si racconta la storia del nostro dopoguerra a partire dal 1943, dalla firma dell’armistizio e dalla fuga del re fino agli anni del governo Berlusconi, del dopo tangentopoli.
Secondo Sangiuliano, la matrice che unisce tutte le esperienze politiche italiane è “la divisione, la mancanza di una prospettiva condivisa dello Stato e dello sviluppo economico e culturale della nazione”. In pratica il dopoguerra in Italia, per Sangiuliano, è caratterizzato da contrasti politici e ideologici che ad un certo punto addirittura potevano portare a“a Due Italie sullo stesso suolo: la destra democristiana ‘filoamericana’ e la sinistra comunista filosovietica”. Del resto, l’esito del recente referendum ne è un ulteriore prova. Certamente il “No” ha vinto con un margine schiacciante sul “Si”, ma questo ha un pur sempre racimolato un buon 40% di consensi. Dunque si può dire che anche in questo caso gli italiani si sono divisi. Nell’introduzione, Feltri evidenzia la questione della divisione del nostro Paese che“impedisce all’Italia di diventare una patria”. La divisione dell’Italia è ricorrente nella nostra Storia. Il giornalista fa l’esempio, forse quello più significativo della divisione tra Nord e Sud, nata con la forzata unità d’Italia e alimentata poi negli anni.
Gli argomenti trattati dai due giornalisti, sono tanti, per quanto riguarda la prima parte, ritengo opportuno segnalare alcuni passaggi della politica dei comunisti italiani. Sangiuliano in particolare affronta affronta la questione Gramsci all’interno del Partito comunista, gestita autoritariamente dal “compagno Ercoli”, alias Palmiro Togliatti, anche se nel cuore dei militanti il vero leader del comunismo italiano era rimasto Antonio Gramsci. Infatti,“alcuni compagni della prima ora bisbigliavano che non era stato fatto nulla per ottenere la liberazione di Gramsci”. In pratica, “l’Italia fascista aveva buoni rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica, se Mosca fosse stata investita del caso e il Cremlino avesse voluto prodigarsi, forse si sarebbe potuto organizzare uno scambio con qualche dissidente anticomunista”. Ma non si fece nulla, perchè al Pci, a Togliatti, non interessava avere libero Gramsci, tanto che la moglie dell’intellettuale sardo, Giulia Schucht,“inoltrerà una formale denuncia al Comintern nella quale documenterà le manovre di Togliatti a danno di Gramsci”.
Comunque sia, scriveva Mussolini:“Gramsci è morto di malattia, non di piombo”, come accade a tanti gerarchi comunisti, “che dissentono anche un poco da Stalin e probabilmente sarebbe accaduto anche a Gramsci stesso se fosse andato a Mosca”.
Inoltre, Sangiuliano si occupa dell’egemonia rossa nella cultura italiana, raccontando alcuni particolari, a partire dalla vita di Benedetto Croce, uno dei pochi che ha rifiutato di incensare il fascismo di Mussolini. Diverso fu invece“l’atteggiamento di quei tanti intellettuali che scrissero lettere deferenti al duce e poi sarebbero diventati comunisti”.
Togliatti dopo la svolta di Salerno si dedicò a costruire il “partito nuovo”, per fare questo aveva bisogno di conquistare l’egemonia culturale che doveva assicurare al Pci “il dominio delle idee non solo nella cultura politica ma in tutte le manifestazioni della vita sociale: la scuola, l’arte, il cinema, la letteratura, l’università, i giornali, le case editrici”. Erano “le casematte” da conquistare che aveva teorizzato lo stesso Gramsci. Togliatti, per questo progetto, recluta i nuovi alfieri dell’egemonia culturale “fra i giovani fascisti, fra coloro che si sono alimentati alla cultura gentiliana, agli estetismi del regime, ai miti e alla dottrina del regime”.
Secondo la storica Mirella Serri, si tratta “di una vera e propria ‘operazione politica’ di recupero dei giovani ‘ex’”. Sostanzialmente avviene, “un vero e proprio passaggio dal fascismo militante all’antifascismo militante,, che portò nel Pci neofiti pieni di zelo perchè avevano qualcosa da farsi perdonare”. E’ un argomento questo per lungo tempo negato, ma poi la forza dei documenti, fa crollare la “verità” comunista, peraltro lo stesso Giorgio Amendola ammette che questi giovani intellettuali, avevano aderito in massa al fascismo.
Il libro fa i nomi di questi intellettuali a cominciare di Carlo Muscetta e Norberto Bobbio, ma c’è Massimo Caprara e Giorgio Napolitano, i “signurini” con il loro tratto borghese, usciti dal Guf napoletano. Usciti dall’ombra di numerose riviste fasciste, numerosi intellettuali sono destinati ad assumere un ruolo di rilievo nel dopoguerra: Corrado Alvaro, Giulio Carlo Argan, Renato Guttuso, salvatore Quasimodo, Giorgio Spini Dario Fò ed altri. Nessuno di questi si è scagliato contro le ignobili leggi razziali. Bobbio, futuro senatore a vita della Repubblica, in una intervista al giornalista Pietrangelo Buttafuoco, novantenne riconoscerà: “Ero immerso nella doppiezza, perchè era comodo fare così. Fare il fascista tra i fascisti e l’antifascismo con gli antifascisti”.
Poi Sangiuliano affronta la querelle sulla revisione storica della cosiddetta resistenza comunista. Nata soprattutto dopo la pubblicazione dei diversi libri di Giampaolo Pansa, e quelli del professore Renzo De Felice, che hanno spazzato via tutte le bugie comuniste intorno al resistenza.
Sangiuliano ripercorre tanti altri fatti, come l’attentato a Togliati, e qui l’Italia era sull’orlo della guerra civile, poi arrivò Gino Bartali con la vittoria al Tour e mise tutto a posto. Naturalmente non posso evidenziare tutti i fatti politici affrontatti dal libro, per forza maggiore bisogna scegliere.
Un momento particolare fu l’anno 1956, quello della rivolta popolare in Ungheria. I ragazzi di Buda e Pest scendono nelle strade e il 23 ottobre sotto il monumento a Petofi, fanno la rivoluzione, ma dura poco, il 4 novembre 4.000 carri armati sovietici schiacciano e reprimono la resistenza degli studenti e operai ungheresi. Imre Nagy e altri membri del suo governo verranno impiccati dopo un processo farsa. Il Pci italiano si lacera di fronte ai fatti ungheresi, ci sono quelli che vogliono aprire una discussione, ma i dirigenti comunisti la stroncano sul nascere, si urla: “viva i carri armati sovietici”. Ma nonostante la stroncatura, nasce “il manifesto dei 101”, e subito si dà la caccia agli eretici. In pratica per i firmatari ha inizio un vero e proprio processo stalinista interno. Tra il ’55 e il ’57, il Pci perde quattrocentomila iscritti e tra essi importanti intellettuali come Italo Calvino ed Elio Vittorini. Vi risparmio a questo punto le dichiarazioni del nostro capo dello stato Napolitano a proposito dei fatti ungheresi.
La prima parte curata da Sangiuliano si conclude con la descrizione del sessantotto italiano che durerà ben dieci e lunghi anni. Si ripercorrono i fatti intorno alle università di Trento, di Milano, i tanti autunni caldi, che porteranno alle violenze e all’odio diffuso soprattutto tra i giovani.
Mentre nella seconda parte Vittorio Feltri, affronta la storia dal 1960 ad oggi. E visto che tra qualche giorno ricorre l’anniversario della strage di piazza Fontana a Milano, ritengo interessante commentare il V capitolo, dal titolo:“conformismo intellettuale: il caso Calabresi”. Qui Feltri, racconta una delle più brutte pagine della storia politica italiana, l’uccisione del povero commissario Luigi Calabresi. Tutto parte dal 12 dicembre 1969, l’eccidio di piazza Fontana. All’indomani dei fermi di Valpreda e Pinelli, si crea immediatamente un esercito di innocentisti, capace di creare proseliti e creare una mentalità contro cui scagliarsi. Alla fine si crea un capro espiatorio per attribuire tutti i mali del mondo, lo si trova nel commissario Calabresi, a cui è stata affidata l’inchiesta sulla strage. Durante l’interrogazione l’anarchico Pinelli cade dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi, apriti cielo, tutto l’esercito di sinistra non fa altro che accusare il commissario di omicidio.“Scoppia il finimondo”, scrive Feltri, “Pinelli diventa il caso di un uomo assassinato dalla polizia”. Naturalmente “si passa in fretta al teorema classico della polizia fascista che sta dalla parte del potere conservatore”.
Un esercito, guidato da “Lotta Continua”, sostenuto dai mezzi di informazione assai influenti e agguerriti, come il settimanale “L’Espresso” e “Panorama”, i quotidiani “L’Unità” e “Paese Sera”. Praticamente il commissario Calabresi dopo la morte di Pinelli,“smette di vivere”. Contro di lui la sinistra,“partorisce feroci e violentissime campagne di stampa e di odio”. A queste campagne si accodano soprattutto gli intellettuali: Calabresi, diventa il demonio da linciare pubblicamente.“Si arriva al punto che dagli intellettuali viene fuori un appello, uno dei tanti. Ma questo, pubblicato dall’”Espresso” nel giugno 1971, diventa una specie di condanna a morte per Calabresi, perché nell’appello si accusa esplicitamente il commissario di aver ammazzato Pinelli, e si sostiene che per questo Calabresi va allontanato, professionalmente eliminato”.
Dal linciaggio si passa direttamente all’omicidio che avviene nel maggio 1972. Nella lista dei firmatari ci sono tutti, tra i 757 ci sono giornalisti, scrittori, registi, politici etc. I loro nomi si possono trovare tranquillamente su tutti i libri e giornali. E’ evidente che questi signori hanno sottoscritto la condanna del commissario, alcuni di loro hanno ammesso, scrive Feltri,“l’esistenza di un rapporto di causalità tra l’appello sottoscritto dall’”Espresso” e l’omicidio”. Almeno in due hanno fatto mea culpa, Paolo Mieli e l’ex ministro Carlo Ripa di Meana.
Il conformismo culturale “è una diffusa malattia italiana, una paranoia radicata, continuamente nobilitata dai mezzi di comunicazione, in cui anche la letteratura e cinema si buttano a capofitto”. Ma forse non è una malattia solo italiana, abbiamo visto recentemente con le elezioni presidenziali americane, come i mezzi di informazione hanno dipinto il candidato Trump. Questo conformismo culturale pieno di odio, ha colpito Calabresi, ha colpito il presidente Giovanni Leone, in seguito ha colpito Bettino Craxi, accade la stessa cosa con Enzo Tortora, poi ha colpito Berlusconi e chissà quanti altri ancora.

Domenico Bonvegna