Dopo aver letto i libri peraltro ben documentati di Lorenzo Del Boca, Aldo Cazzullo, “Plotone di esecuzione” di Forcella e Monticone o i 3 volumi sui Vescovi veneti curati da don Antonio Scottà, la voglia di commemorare o di celebrare, il 4 novembre, la vittoria più o meno “mutilata”della 1 Guerra mondiale viene decisamente meno. Certo ancora assistiamo a celebrazioni istituzionali (sindaci, assessori e varie autorità pubbliche) che si prestano ogni anno a questa vuota ritualità, lo fanno per inerzia, senza conoscere la vera storia della guerra. Tuttavia, festeggiare una mattanza come quella della 1 Guerra mondiale, è un po’ troppo. Anzi bisogna chiedersi se è stata“un’impresa gloriosa o una carneficina insensata, voluta da cinici politicanti e condotta da ufficiali codardi e incapaci?” E se poi si vuole ricordare qualcosa, piuttosto dovremmo festeggiare quando la guerra finisce: il 3 novembre, come scrive Del Boca nel suo ultimo libro.
Del resto anche Cazzullo nel suo “La guerra dei nostri nonni”, edito da Mondadori (2014), dopo aver apprezzato che la guerra ha unito maggiormente l’Italia, facendogli fare il salto di qualità: non più un nome geografico, ma una nazione vera e propria. Ma nonostante la retorica, racconta le gravissime responsabilità dei politici, dei nostri generali, affaristi, intellettuali, a cominciare da D’Annunzio che trascinarono il Paese in un grande massacro.“Per i futuristi, i vitalisti, i nazionalisti, – scrive Cazzullo – l’ingresso dell’Italia in guerra è una vittoria culturale. La loro linea violenta, sciovinista, superomista ha prevalso sulla prudenza di gran parte della nazione[…]”
La grande guerra del 15-18 fu una terribile carneficina, in cui persero la vita più di un milione di persone, tra militari e civili. Mentre in tutto il mondo, i morti furono 37 milioni: un’ecatombe che ha spazzato via quasi un’intera generazione.
Cazzullo consultando diversi testi racconta la Prima guerra mondiale vista attraverso gli occhi della gente comune che vi ha partecipato, senza addentrarsi eccessivamente nelle complesse vicende politiche in cui il nostro Paese venne coinvolto e senza le proiezioni tipiche dello storico, diventa in queste pagine un’incredibile e straziante avventura alla quale furono chiamati a partecipare migliaia di uomini, per lo più contadini, ignari del loro destino e delle sorti del mondo.
Fu una guerra di posizione, combattuta palmo a palmo nelle trincee del Carso, sui monti dell’Isonzo, a Caporetto. Un fronte caldissimo in cui il nemico austriaco era talmente vicino che nella notte se ne potevano ascoltare le voci e in cui, per l’avanzata di pochi metri, venivano sacrificati interi reggimenti. La testimonianza del tenente Salsa è agghiacciante: “il terreno conquistato era coperto di morti[…] non si poteva andare più oltre […] era un’ubriacatura. Coloro che confezionavano gli ordini li spedivano da lontano; e lo spettacolo della fanteria che avanzava, visto dal binocolo, doveva essere esaltante. Non erano con noi, i generali; il reticolato non l’avevano mai veduto. I nostri soldati si fecero ammazzare così a migliaia, eroicamente, in questi attacchi assurdi che si ripetevano ogni giorno, ogni ora, contro le stesse posizioni”.
I soldati al fronte hanno dovuto affrontare il freddo, il cattivo equipaggiamento, la fame, le scarse condizioni igieniche, le malattie letali come il tifo, il colera e influenza spagnola che non risparmiò certo quelli che erano rimasti a casa. Tutte queste malattie, sconvolsero le nostre truppe più della mitraglia e del gas usato dal nemico.
Il testo di Cazzullo mette in risalto il coraggio dei nostri soldati ma nello stesso tempo l’inettitudine, l’impreparazione, talvolta il sadismo dei nostri comandanti.
Nei racconti allucinati dei superstiti lo spavento e la disperazione è tale che molti dei soldati andavano incontro alla morte quasi fosse una liberazione. L’esercito italiano era fatto di contadini legati alla terra, che seppero difendere la loro terra e le loro montagne con grandissimo valore.
Cazzullo fa i nomi di quei comandanti sadici che impartivano ordini e magari non videro mai le linee nemiche e che decimarono i loro stessi uomini, come il generale Graziani da Bardolino, Verona. Tra il 23 e il 26 maggio 1917, va in giro con il moschetto a caccia di soldati che tornano indietro dall’assalto. Naturalmente Cadorna apprezza. “Si fucila a caso, con una spietatezza che indigna un testimone americano: Ernest Hemingway[…]”. Un reduce, Cesare De Simone racconta: “tutte le volte che c’era un attacco arrivavano i carabinieri[…] i loro ufficiali li facevano mettere dietro in fila dietro di noi e noi sapevamo che, quando sarebbe stata l’ora, avrebbero sparato addosso a chiunque si fosse attardato nei camminamenti invece di andare all’assalto”. Tutti i libri raccontano il crudele ruolo assunto dagli uomini della“Virgo Fidelis” nella 1 guerra mondiale.
Finché rimase al comando il generale Luigi Cadorna le licenze concesse ai soldati furono rare, mentre le punizioni esemplari per i disertori o i dissidenti furono frequentissime. Numerose le testimonianze di fucilazioni di quanti si rifiutarono di obbedire ad ordini assurdi Solo con il passaggio al comando del generale Armando Diaz, dopo Caporetto, le condizioni dei soldati migliorarono leggermente.
Nelle pagine del testo, Cazzullo offre moltissimi, e tutti interessanti, punti di vista. Troviamo le testimonianze rinvenute nei diari dei soldati semplici, ma anche gli articoli apparsi sui giornali del tempo. Non mancano i racconti dei grandi poeti e scrittori italiani, tra cui Carlo Emilio Gadda e Giuseppe Ungaretti, che raccontarono con un linguaggio nuovo e impressionante la loro guerra. Senza l’enfasi dei Futuristi o del Vate D’Annunzio.
Tra le pagine più belle, quelle in apertura del libro. Si racconta la repressione violenta della rivolta di un reggimento di fanteria, decimato dal colonnello, che ordina di fucilare dieci soldati estratti a sorte e tra di loro addirittura due “complementi”, soldati giunti dopo la rivolta. E quando il povero disgraziato soldato bendato gli ricordava che lui non c’era quel giorno della rivolta e chiedeva di essere graziato, il colonnello paternamente risponde: “Figliolo, io non posso cercare tutti quelli che c’erano e che non c’erano. La nostra giustizia fa quello che può. Se tu sei innocente, Dio ne terrà conto. Confida in Dio”.
Il testo dà conto degli italiani d’Austria, dei Trentini e dei Giuliani, considerati traditori traditori dagli Austriaci prima e dagli Italiani poi. Terribili le pagine in cui Cazzullo racconta gli stupri etnici … le nostre nonne subirono azioni atroci. Si è persa memoria dello “stupro del Friuli” e della “tragedia” cioè dei ”figli nati dalle violenze” così tanti “che si dovette aprire un orfanotrofio” per “gli orfani dei vivi”. Nessuno infatti voleva saperne di quei “piccoli tedeschi” bastardi.
Da buon giornalista, Cazzullo riesce a raccontare diversi particolari come quello dell’artigliere ventunenne di Viterbo, condannato a 22 mesi di carcere per aver detto a suo padre di riferire alla gente che la guerra è ingiusta, perché “voluta da una minoranza di uomini”.
Cazzullo ci fa sentire la voce di soldati, contadini, ufficiali nobili. E, forse per la prima volta, anche quella delle donne: crocerossine, prostitute, portatrici, persino spie alla Mata Hari.
Siamo cresciuti coi racconti di guerra dei nostri nonni, dei nostri zii, che ci raccontavano la Storia della gente comune, dei contadini, dei ragazzi del Sud, come ha ben scritto Lorenzo Del Boca, ne “Il sangue dei terroni”. E’ la microstoria che viene raccontata dal libro di Cazzullo. La Grande Guerra non ha eroi. I protagonisti non sono re, imperatori, generali. Sono fanti contadini: i nostri nonni. Furono in molti a dover abbandonare le famiglie sotto le tende per recarsi al fronte. Magari scamparono alla Natura Matrigna, ma non al folle Cadorna.
Aldo Cazzullo racconta il conflitto ’15-18 sul fronte italiano, alternando storie di uomini e di donne: le storie delle nostre famiglie. Perché la guerra è l’inizio della libertà per le donne, che dimostrano di poter fare le stesse cose degli uomini: lavorare in fabbrica, guidare i tram, laurearsi, insegnare. Le vicende di crocerossine, prostitute, portatrici, spie, inviate di guerra, persino soldatesse in incognito, incrociano quelle di alpini, arditi, prigionieri, poeti in armi, grandi personaggi e altri sconosciuti.
Attraverso lettere, diari di guerra, testimonianze anche inedite, “La guerra dei nostri nonni” conduce nell’abisso del dolore: i mutilati al volto, di cui si è persa la memoria; le decimazioni di innocenti; l’«esercito dei folli», come il soldato che in manicomio proseguiva all’infinito il suo compito di contare i morti in trincea. Sono testimonianze di una sofferenza che oggi non riusciamo neppure a immaginare, sia le tante storie a lieto fine come quelle raccolte dall’autore su Facebook.
Per avere piena consapevolezza dell’inutile crudeltà di questa guerra e quindi per non festeggiarla, basterebbe leggere i 2 capitoli del libro di Cazzullo, che mi hanno maggiormente colpito, che riguardano gli effetti della guerra: i troppi mutilati (“i soldati senza più volto”) e i troppi malati mentali (“l’esercito dei matti”). L’Italia nella Grande Guerra ebbe un milione di feriti, (mutilati, storpi, senza occhi, senza mani, muti, sordi). All’inizio della guerra, tra i soldati schierati in prima linea, la percentuale dei feriti arrivò al 90%, “praticamente – secondo Cazzullo – tutti passarono attraverso il momento di terrore in cui si perde o si rischia di perdere una parte di sé”. Sostanzialmente bastarono i primi giorni per riempire gli ospedali militari di mutilati., naturalmente da nascondere con cura. Alcuni addirittura, perfino nel 1919, a guerra finita, per la loro mostruosa mutilazione, si impediva ai familiari di vederli o si faceva credere che fossero morti o dispersi.“Sui mutilati al viso è calato un lungo oblio, infranto dal documentario girato nel 2004 da Yervant Gianikian e Georg Trakl[…] i due cineasti hanno mostrato, grazie a immagini censurate per quasi novant’anni, le conseguenze umane e sociali della Grande Guerra”. Basterebbero queste sole immagini per rappresentare in maniera definitiva l’orrore indicibile della guerra.
Infine c’è il racconto dei cosiddetti “scemi di guerra”, Cazzullo riporta gli studi di una ricercatrice, Annacarla Valeriano, dell’università di Teramo. Questa donna, ha ritrovato le cartelle cliniche e le lettere dei fanti ricoverati nel manicomio della sua città e poi estendendolo a tutto il territorio nazionale. “Ne esce un martirologio straziante, che la Valeriano ha pubblicato dalla casa editrice Donzelli con un titolo tratto dalle annotazioni cliniche dell’epoca: ‘Ammalò di testa’”. Lo studio della Valeriano, rappresenta uno“una discesa agli inferi di una sofferenza immensa e dimenticata”. Cazzullo nel capitolo, riporta un’ampia antologia di casi di malessere significativo, soldati rimasti per sempre segnati dalla guerra. Peraltro vengono colpiti anche i familiari a casa, soprattutto, le donne, le mamme che aspettano il figlio o il marito.
“Le ferite o le mutilazioni mettono in dubbio la propria identità, il proprio ruolo sociale. Il fante tornato a casa non sa più chi è. La guerra è qualcosa più grande di lui. La tecnologia della morte lo sovrasta. Il nemico che uccide senza mai mostrarsi diventa un’ossessione. A volte i peggiori nemici sono gli ufficiali italiani: è lo Stato, tradizionalmente assente, che si manifesta in modo improvviso, con tutto il suo potere coercitivo e la sua ottusità al limite della crudeltà”. Pertanto concludo ancora con la domanda: tanta inutile crudeltà, tanta carneficina insensata, come è stata la guerra voluta da una minoranza degli italiani, merita essere festeggiata?
Domenico Bonvegna
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