ANAAO ASSOMED. L’Associazione Nazionale Aiuti e Assistenti Ospedalieri è stata fondata 60 anni fa, esattamente il 20 luglio del 1959 a Vicenza. I soci fondatori furono Giorgio Pomerri, Wladimiro Gualandri, Stelio Ferolla, Antonio Scannagatta, Andrea Marsiag.
di Carlo Palermo, Segretario Nazionale Anaao Assomed
L’Associazione Nazionale Aiuti e Assistenti Ospedalieri è stata fondata 60 anni fa, esattamente il 20 luglio del 1959 a Vicenza. I soci fondatori furono Giorgio Pomerri, Wladimiro Gualandri, Stelio Ferolla, Antonio Scannagatta, Andrea Marsiag. Una storia lunga la nostra, vissuta da generazioni diverse di medici e dirigenti sanitari, che ha attraversato l’evoluzione della sanità in Italia e lo sviluppo del nostro Servizio sanitario nazionale e dei suoi principi fondanti che oggi sono messi in crisi: l’universalità dei destinatari delle cure, l’equità nell’accesso ai servizi, la solidarietà nei criteri di finanziamento.
È il racconto di una passione civile capace di tenere insieme il diritto alla cura con quello di curare, la rappresentanza e la difesa dei legittimi interessi di una categoria con la esigibilità per i cittadini dell’articolo 32 della Costituzione, questioni sindacali mai separate da ideali e sensibilità etiche.
Questa è l’essenza dell’Anaao, il principio che ci ha sempre guidato, tramandato da tutti coloro che mi hanno preceduto alla Segreteria dell’Associazione, i quali con il loro appassionato impegno l’hanno resa grande. Un grazie ai molti di loro che sono qui presenti e un ricordo commosso e riconoscente per coloro che non sono più tra noi.
In Italia abbiamo assistito negli ultimi 10 anni all’assalto dei principi fondanti del nostro SSN, che ha prodotto pesanti conseguenze sulla possibilità di accesso alle cure da parte dei cittadini. Ma a differenza di quello che è avvenuto in Inghilterra, Spagna e Francia, nel nostro paese l’assalto neo liberista non ha trovato un percorso politico e legislativo trasparente. In Italia l’assalto c’è stato, ma è stato condotto sottotraccia. I politici di turno, in particolare in alcune regioni (Veneto, Piemonte) hanno detto e non detto, spesso si sono contraddetti, hanno promesso e smentito, hanno gettato cortine fumogene per coprire la volontà di trasferire al privato una percentuale sempre più alta di attività sanitarie.
La giornalista e attivista canadese Naomi Klein molto ha scritto sugli shock e le loro ricadute in politica e ha sottolineato come in molte differenti situazioni, “coloro che si oppongono al welfare state non sprecano mai una buona crisi”. Nel nostro caso si è trattato della crisi economico-finanziaria successiva al 2008 utilizzata per distruggere i sistemi di welfare universalistici, come il National Health Service e altri servizi sanitari nazionali come quello spagnolo. Recentemente, il 14 novembre, anche in Francia ci sono state proteste e scioperi in difesa del sistema ospedaliero sottoposto a forti attacchi per la riduzione dei finanziamenti, il controllo ferreo dei costi, la riduzione del personale e dei posti letto. Condizioni che in Italia conosciamo molto bene.
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Il personale del Ssn: un patrimonio di competenze e professionalità da difendere.
Sotto il profilo finanziario, il periodo che va dal 2010 e arriva ai giorni nostri è stato terribile per il SSN. A causa della crisi economica, il finanziamento è stato progressivamente ridotto. In due anni addirittura in termini assoluti rispetto all’anno precedente: 2013 con il Governo Monti e il 2015 con il Governo Renzi. Solo con il Governo Letta nel 2014 si è avuta una crescita superiore al tasso inflattivo medio (+ 2,9 mld: + 2,7% rispetto al 2013). Per il resto, il finanziamento è cresciuto di circa un miliardo all’anno, insufficiente a coprire anche il differenziale inflattivo con conseguente perdita di valore in termini reali del FSN. Secondo Gimbe il de-finanziamento “coatto” del SSN nell’ultimo decennio è calcolabile in 37 mld di €. Solo nel 2020 e 2021 avremo una ripresa del finanziamento al di sopra del tasso di inflazione media, risultato ottenuto prima dall’ex Ministro Grillo e confermato nella Legge di Bilancio 2020 dal Ministro Speranza.
La limitazione della spesa per il personale sanitario, introdotta con la Legge n. 296 del 2006 e ripresa dalla Legge Finanziaria per il 2010, associata alle politiche dei piani di rientro per le Regioni in deficit di bilancio, ha determinato nel 2017, come si deduce dai dati del CAT, una carenza nelle dotazioni organiche di circa 8 mila medici, 2 mila dirigenti sanitari e 36 mila tra infermieri, fisioterapisti e tecnici sanitari rispetto ai dati del 2010. Regioni e Aziende per raggiungere l’equilibrio dei conti economici hanno risparmiato tagliando sul personale, un Bancomat che è stato ferocemente sfruttato. E non si è trattato solo di blocco del turnover, ma anche di gravidanze o di assenze per malattie prolungate mai sostituite. Anche i posti letto negli ultimi 20 anni hanno subito una vera e propria falcidia, portando l’Italia in coda alle graduatorie europee nel rapporto PL/1000 abitanti (3,2 per mille in Italia rispetto al 5 per mille medio della UE). Per questo le condizioni di lavoro nei reparti ospedalieri e nei servizi territoriali, soprattutto nelle Regioni in piano di rientro, sono rapidamente degradate e l’accesso alle cure per i cittadini è diventato difficile, con il prolungamento delle liste d’attesa misurato in semestri se non in anni, in particolare per visite specialistiche, chirurgia in elezione e diagnostica di secondo livello.
Le restrizioni stanno quindi intaccando quel il patrimonio di competenze specialistiche e professionalità di cui il nostro Servizio sanitario è stato sempre dotato e su cui si fonda la sua capacità di erogare cure di qualità. I vincoli di spesa hanno non solo ridotto il personale dipendente ma ne hanno elevato anche l’età media per il blocco del turn over, dato preoccupante per organizzazioni come quelle ospedaliere con turni di lavoro sulle 24 ore, delicate funzioni di cura e necessità di trasferimento delle buone pratiche ai più giovani. Sono state imposte condizioni di lavoro demotivanti, dal blocco decennale contrattuale, che solo nei prossimi giorni verrà interrotto, alle difficoltà connesse alle continue riorganizzazioni gestionali; dalla penuria di risorse per la formazione alla obsolescenza delle tecnologie e alla ridotta manutenzione delle strutture con normative antisismiche e antincendio non sempre rispettate. Si è cercato di favorire la sostituzione del personale dipendente con personale esterno e precario: dai gettonisti, ai medici delle cooperative, dai medici pensionati a quelli a partita IVA per arrivare ai neolaureati, ai medici militari e a quelli stranieri (ammesso che accettino di lavorare in Italia) in un tripudio di soluzioni tante fantasiose quanto inconcludenti e pericolose per il totale disprezzo della sicurezza delle cure. E così il personale specializzato è sempre più carente, vuoi per la sostanziale assenza, ormai da anni, di una efficace programmazione dell’offerta formativa vuoi perché i professionisti più qualificati vanno altrove (in pensione, all’estero, presso strutture private) mentre il personale esterno – precario, meno aggiornato e con remunerazioni più modeste – non è in condizione di avvantaggiarsi delle conoscenze dei più esperti e dei progetti di formazione. Viene a mancare quella naturale osmosi tra generazioni professionali diverse che da sempre garantisce la trasmissione dei saperi e delle tecniche nel nostro SSN.
La mancanza di una seria politica del personale sta mettendo in ginocchio l’intero sistema sanitario.
I medici e i dirigenti sanitari sono oramai in piena sofferenza, potremmo dire sull’orlo di una crisi di nervi.
E i motivi forse meritano un approfondimento concreto:
- Lavorano troppo, una vita appesa a turni notturni e festivi, a coprire i buchi lasciati negli ultimi 10 anni da quasi 10.000 posti non coperti a causa del blocco del turnover:
- Turni di servizio in netto incremento; weekend quasi tutti occupati da guardie e reperibilità; difficoltà nel godere delle ferie maturate; straordinari non retribuiti.
- Profonde ripercussioni sulla qualità della vita familiare e sociale.
- Rischio di denunce ed aggressioni.
- Burnout e malattie stress correlate in incremento.
- Svolgono un lavoro non solo gravoso ma anche molto rischioso con ben quattro livelli di responsabilità: penale, civile, disciplinare, deontologica per ognuno del miliardo di atti medici che compiono ogni anno. Ed anche per quelli che non compiono (omissione di procedure soprattutto, per problemi organizzativi). Il lavoro nel privato è obiettivamente meno stressante visto che si affronta una casistica di elezione e ad alta remunerazione in ambito chirurgico.
- Sono pagati poco, e non tanto rispetto ad una indistinta Europa, dove troviamo comunque stipendi raddoppiati rispetto a quelli italiani, quanto alla concretezza dei punti precedenti. La recente indagine Fnopi ha evidenziato per i medici del SSN una perdita di oltre 6000 € in termini di potere di acquisto, legata in particolare al blocco della dinamica contrattuale sancito dalla legge 122/2010, Governo Berlusconi, Tremonti, Bossi. In realtà, in termini di mancato incasso di quote economiche, il periodo 2011/2015 è stato pesantissimo a causa del blocco delle dinamiche di carriera e le conseguenze le hanno pagate soprattutto i giovani. Sono stati bloccati, con interpretazioni ultra legis da parte delle Aziende, gli scatti di posizione ed esclusività ai 5 anni (- 11.000 € per ogni anno di ritardo) e ai 15 anni (- 6000 € per ogni anno di ritardo). A tutto ciò si è aggiunta la perdita di ogni prospettiva di carriera a causa della vera e propria falcidia di strutture complesse (- 4000) e di strutture semplici (-7000) seguiti all’applicazione del DM 70.
- Contano poco nelle organizzazioni sanitarie, dove tutti possono decidere del loro lavoro tranne gli interessati, non essendo considerati professionisti al servizio dello Stato ma semplici impiegati con funzioni professionali confusi nella vasta platea della Pubblica Amministrazione. Siamo oramai ad una evidente erosione della dirigenza speciale, eppure prevista dal D.Lgs 502/92, dell’autorità professionale e dell’autonomia del medico nella sfera clinica. Avanza una chiara proletarizzazione, non nel senso puramente economico, ma come processo attraverso il quale i medici, in particolare ospedalieri, vengono privati del controllo su determinate prerogative relative ai contenuti e ai fondamenti del proprio operato professionale diventando strumenti subordinati di produzione di attività e servizi. Numeri al servizio di altri numeri, alla faccia della valorizzazione del capitale umano. La burocratizzazione e la taylorizzazione del lavoro medico sono i principali processi per mezzo del quale l’assistenza sanitaria diventa sempre più simile ad una attività di produzione manufatturiera finalizzata all’equilibrio di bilancio e non alla cura. In sintesi, in organizzazioni finalizzate alla tutela della salute, che semplicemente non esiste senza i medici, il loro lavoro è diventato un banale fattore produttivo, per di più considerato costoso, da tagliare prima e più degli altri, in tempi di dittatura dei bilanci
Non mi sembra che i risultati di questa lunga ed estenuante serie di provvedimenti siano stati positivi se valutati in termini di miglioramento dell’accesso alle cure da parte dei cittadini. L’ultimo rapporto Censis sta a dimostrare il contrario. La tendenza è oramai un grande trasferimento di attività verso il privato, convenzionato o meno.
Questi fatti concreti, alcuni dimostrati dai nostri studi, hanno determinato lentamente negli ultimi 10 anni profonde modifiche culturali e sociologiche nella categoria medica, potremmo dire antropologiche. Lavorare nel pubblico non è più la scelta prioritaria per i neo laureati che ambiscono a specializzazioni spendibili sul mercato privato (cardiologia, dermatologia, pediatria, endocrinologia, oculistica, chirurgia plastica….). Impressionante è il dato rilevato recentemente in Piemonte: il 6% della dotazione organica si è licenziata tra il gennaio 2018 e il giugno 2019 prima di arrivare alla pensione!! I dati finora da noi sviluppati indicavano una uscita annua per pensionamento intorno al 6-7% della dotazione organica. Forse la realtà che ci aspetta nei prossimi anni è ben più dura di quella immaginata nei nostri studi.
La metamorfosi subita negli ultimi anni dal lavoro professionale in sanità, svilito nella sua funzione sociale, de-capitalizzato, precarizzato, destrutturato, impoverito dal punto di vista retributivo e numerico, merce venduta sul mercato al massimo ribasso, sta generando i suoi amari frutti, anche per coloro che questa deriva hanno perseguito.
Guardate, non si tratta solo di uscire da una vita personale fatta di incertezze, impossibilità di programmare il proprio futuro e di sviluppare una serena vita familiare e sociale. La precarietà ha profonde ripercussioni sulla qualità della erogazione dei servizi sanitari. Le équipe hanno bisogno di lavoro stabile, di stati giuridici non frammentati per poter fare investimenti in termini di crescita delle capacità professionali e tecniche dei singoli operatori. Solo in questo modo è possibile garantire nel tempo la crescita in termini qualitativa e di sicurezza delle prestazioni sanitarie ai cittadini. E’ per questo che diciamo basta alla assunzione di medici neolaureati, di pensionati, di gettonisti o di medici delle cooperative, in cui nemmeno si riesce a verificare il possesso del titolo di specialista o le specifiche competenze per il lavoro che sono chiamati a svolgere. Noi vogliamo coniugare la stabilità e la soddisfazione per il lavoro svolto con la qualità del servizio offerto.
La sanità integrativa ha bisogno di una sostanziale revisione
Di fronte alle crescenti difficoltà della sanità pubblica, i cittadini rinunciano a rivendicare i loro diritti e si stanno convincendo che il cosiddetto secondo pilastro sia l’unica soluzione. Non è così! È illusorio pensare che fondi sanitari, assicurazioni e welfare aziendale costino meno e siano più efficaci. Possono svolgere un ruolo, ma solo nel rispetto dei principi generali di tutela della salute che valgono per tutte le persone. La loro espansione, frutto delle stesse politiche che hanno indebolito la sanità pubblica, è ampiamente sostenuta da importanti agevolazioni fiscali che causano una perdita di gettito Irpef (a carico della collettività dei contribuenti) e un minor monte contributivo (a carico delle future pensioni dei lavoratori). Sono fonte di diseguaglianze perché offrono risparmi fiscali crescenti al crescere del reddito, discriminano specifici gruppi di popolazione e, soprattutto, legittimano l’idea che di fronte alla malattia i cittadini non siano tutti uguali. L’offerta di prestazioni è in larga parte duplicativa di quelle offerte dal Ssn e promuove consumi superflui o inappropriati con forti incentivi a indirizzare la domanda verso fornitori privati. Riteniamo pertanto indispensabile una sostanziale revisione della così detta sanità integrativa, definendone l’ambito di azione in modo da renderla effettivamente integrativa (e non sostitutiva). Ticket, lunghe liste d’attesa, mancanza di prestazioni nelle strutture territoriali tendono a spostare la domanda verso il privato. Nello stesso senso vanno le agevolazioni fiscali concesse alle misure di welfare aziendale. Queste misure favoriscono un sistema categoriale-corporativo alternativo al servizio pubblico. È necessario rafforzare la vigilanza pubblica, garantendo la massima trasparenza delle opportunità e dei costi delle prestazioni proposte ai cittadini, armonizzando l’offerta ai principi di appropriatezza e sicurezza previsti per i Lea e rivedendo radicalmente la normativa fiscale. Dobbiamo evitare derive i cui effetti negativi saranno visibili solo nel lungo periodo, quando le loro dimensioni saranno difficilmente aggredibili. Lo dobbiamo alle future generazioni alle quali vogliamo lasciare in eredità un welfare rinnovato ma non snaturato.
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Le diseguaglianze interregionali si sono accentuate con la modifica del titolo V della Carta Costituzionale, ma l’autonomia differenziata può fare peggio.
Ancora oggi se guardiamo, nel contesto europeo, agli esiti di salute del nostro SSN i risultati non possono che riempirci di orgoglio. Con il 37% in meno delle risorse rispetto agli altri Paesi, come certificato dal recentissimo studio del Crea, otteniamo risultati di eccellenza per quanto riguarda durata della vita, mortalità evitabile, mortalità infantile ed esiti nelle più importanti patologie.
Un sistema universalistico finanziato con la fiscalità generale è più equo ed utilizza in modo più efficiente ed efficace le risorse di qualunque altro sistema basato sulla disponibilità a pagare degli individui. Eppure il nostro sistema presenta ancora rilevanti margini di miglioramento in termini di riduzione dei divari fra aree del Paese (non solo fra Nord e Sud ma anche tra aree metropolitane e aree periferiche nella stessa regione) e fra gruppi di individui in cui l’accesso alle cure e la possibilità di sopravvivenza varia in base al livello di istruzione e al reddito.
La politica di revisione della spesa attuata attraverso i Piani di rientro ha contribuito a contenere i disavanzi ma non ha migliorato l’offerta assistenziale. Anzi, i Piani di rientro hanno spesso distolto l’attenzione dagli obiettivi di riqualificazione dei servizi e hanno contribuito a rinviare interventi possibili. I livelli di assistenza effettivamente erogati appaiono oggi fortemente differenziati tra le varie regioni, la mobilità sanitaria è in aumento, le prestazioni assicurate da alcune regioni sono più ampie e aggiornate di quelle garantite da altre, le tecnologie e le strutture registrano livelli di obsolescenza molto diversificati (non sempre solo nel mezzogiorno), la cattiva amministrazione e la criminalità condizionano con diversa intensità i sistemi sanitari delle regioni.
Tutto ciò si traduce in esiti differenziati tra le regioni del Sud e quelle del Nord sia per quanto riguarda il tasso standardizzato di mortalità che la mortalità evitabile. Si tratta di questioni che non possono essere ulteriormente rinviate, né possono essere accantonate riconoscendo alle regioni ricche l’allentamento dei doveri di solidarietà nei confronti delle popolazioni in difficoltà. Sotto questo profilo, particolarmente preoccupante è il percorso avviato con la recente proposta di autonomia regionale differenziata, le cui conseguenze sulla salute, e più in generale sul sistema paese, sono ampiamente sottovalutate. Una proposta senza contrappesi e meccanismi di salvaguardia, rovinosa sul piano finanziario, avulsa dal perno della centralità dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali, che contribuirà a consolidare le diseguaglianze territoriali e comporterà una rottura dei canoni fondamentali di eguaglianza e solidarietà. Al contrario deve essere rafforzato il ruolo concretamente esercitato dello Stato quale garante della coesione sociale e dell’unità giuridica ed economica del Paese.
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Considerato tutto ci pare che le preoccupazioni che pervadono il nostro mondo siano giustificate.
Cosa fare concretamente in questo difficile contesto?
Importante è sicuramente dare seguito alle promesse avanzate da parte di esponenti dell’attuale maggioranza governativa per la salvaguardia del SSN. Avere per almeno un arco temporale, che potrebbe essere un quinquennio, la certezza di un incremento annuale del FSN intorno ai 2 mld può rappresentare il primo passo verso la salvezza, il livello minimo di finanziamento per affrontare le criticità emergenti.
Serve anche per avviare un grande piano assunzionale il cui costo è valutabile, per i soli medici e dirigenti sanitari, in circa un miliardo di €. Consideriamo molto importante avere previsto nel Patto per la Salute e nella prossima Legge di Bilancio il superamento del limite posto con l’articolo 11 del DL “Calabria” relativo alle risorse destinate all’incremento delle dotazioni organiche rispetto al 2018. Senza, le Regioni in piano di rientro impiegherebbero decenni per recuperare il personale perso dal 2009 in avanti. La proposta del Governo e delle Regioni è di portare la disponibilità economica dal 5% attuale al 15% dell’incremento del finanziamento del fondo sanitario regionale rispetto all’anno precedente. Per essere efficace tale incremento deve essere mantenuto nel tempo.
In presenza di uno sblocco largo delle assunzioni, per far fronte alla carenza attuale e futura di specialisti deve essere rapidamente emanato il regolamento inter-ministeriale attuativo della norma contenuta nell’articolo 12 del DL “Calabria”, voluta dall’ex Ministro Grillo insieme a noi, che permette l’assunzione a tempo determinato degli specializzandi del 4° e 5° anno con un contratto di lavoro a tempo parziale collegato a quello dell’Area della Dirigenza sanitaria. Ad oggi sono circa 9.000 i medici in formazione interessati, e rappresentano, insieme con i circa 15.000 specializzati degli ultimi tre anni, una platea adeguata per tamponare la prima ondata pensionistica che avremo entro il 2022. Il risparmio sui contratti di specializzazione, conseguente all’assunzione degli specializzandi da parte delle Regioni, associato comunque ad un ulteriore finanziamento statale, permetterebbe di incrementarne il numero ad iniziare dall’anno accademico 2020/2021 ad almeno 11.000/11.500, di cui 10.000/10.500 statali e 1000 regionali. Innescando tale circolo virtuoso si comincerebbe a rispondere alle attese dei medici intrappolati nell’imbuto formativo, destinati altrimenti ad aumentate nei prossimi anni per l’arrivo alla laurea degli studenti iscritti dalla magistratura amministrativa, senza contare che l’incremento degli specializzandi e del numero dei futuri specialisti permetterebbe di affrontare la seconda ondata di pensionamenti dal 2023 in avanti.
Ora, siamo alla Legge di Bilancio, vera cartina di tornasole delle politiche sanitarie future. La cruna dell’ago da attraversare è costituita dalle condizioni di lavoro, e dai livelli retributivi del personale, medici, dirigenti sanitari ed infermieri, oggi carente e sofferente.
E’ bene sapere cosa i dirigenti medici e sanitari attendono dalla Legge di Bilancio:
- Il superamento del comma 2 art 23 del D.lgs 75/2017, visto che le Dirigenze dell’Area Sanità hanno già ottemperato nel CCNL 2016-2018, e gratis, a quanto richiesto al comma 1 dello stesso articolo, cioè la “progressiva armonizzazione” dei fondi accessori. Chiediamo pertanto la possibilità di utilizzare le risorse derivanti dalla RIA, che rappresentano un patrimonio storico della categoria e appartengono già ai loro fondi contrattuali, per poter completare l’armonizzazione, premiare il merito e remunerare il disagio.
- La defiscalizzazione, già concessa al lavoro privato e agli insegnanti pubblici, della produttività aggiuntiva che metterebbe al servizio dell’abbattimento delle liste di attesa milioni di prestazioni in più. Certe e non aleatorie.
- Un aumento delle ore lavorate, nel sistema 118 e negli ospedali, attraverso il passaggio del personale convenzionato che occupa posti ospedalieri alla dipendenza.
- Una modifica dei termini temporali previsti dalla Legge “Madia” per permettere la stabilizzazione del precariato ancora presente.
- La proroga della validità delle graduatorie fondamentale per far fronte all’elevato turn over che dovremo affrontare nei prossimi anni.
In sostanza, misure per migliorare il lavoro negli ospedali e nel SSN per renderlo attrattivo per i giovani ed i meno giovani, riducendone la precarizzazione e migliorandone la qualità e i suoi contenuti economici. Ridare valore al lavoro.
Abbiamo bisogno, quindi, di più diritti, di più stabilità nel lavoro, che significa anche felicità nella vita, di più intelligenze messe a disposizione della qualità del lavoro.
Abbiamo bisogno di più sindacato e non di meno, di un sindacato che esprima solidarietà, comunità, partecipazione e antagonismo. Di un sindacato capace di indicare una uscita collettiva ai problemi che oggi vivono i Colleghi e con loro il Servizio Sanitario Nazionale. Questo è il ruolo sociale che dobbiamo conservare e affermare sempre di più se vogliamo avere un ruolo politico nel nostro Paese.
Da qui ripartiamo. Dalla sottoscrizione di un contratto atteso 10 anni nel luglio 2019, lo stesso mese della nascita dell’Anaao 60 anni prima. Da quella forza antica eppur moderna delle nostre idee e dalla nostra capacità di guardare lontano con l’ottimismo e la volontà di determinare il futuro, un tempo in cui la nostra Associazione continuerà a vivere.