“Ma che razza di persona passa la vita a servire un altro uomo come se fossimo nel Medioevo, senza avere in mente il più piccolo concetto di morale, e ad ammazzare sconosciuti riscuotendo denaro dalla gente che lo suda ogni giorno? Come vivono senza la coscienza di un bene superiore che li consoli delle loro azioni e che dia loro la forza di alzarsi la mattina? Che poveri coglioni!
Ecco, la conclusione era la stessa. E infatti, tutti stretti nel carcere di Cuneo in quel lontano 1973, ogni tanto un po’ coglioni ci sentivamo. Più che altro per essere lì dentro a blaterare di forza, coscienza, e giustizia, mentre fuori l’Italia cambiava, lasciandoci a macerare nelle nostre convinzioni oramai sempre più anacronistiche. E un “Che cazzo guardi” ogni tanto, avremmo voluto lanciarlo anche noi: verso l’alto, per sfidare chi poteva mai divertirsi a lasciar accadere tutto ciò che stava succedendo nel mondo”.
tratto dal romanzo “Il picciotto e il brigatista” – Fazi editore
Carcere, salute, diritti, società, politica. Tante parole, ma nessun fatto concreto: il Coronavirus e la rivolta nelle carceri dei giorni scorsi hanno riacceso i riflettori su un mondo pieno di zone d’ombra dove la politica ha perso spesso la faccia. Notizie, fotografie, interventi politici., ma una volta spente le luci chi prometteva iniziative, per migliorare le strutture, scompare. All’interno degli istituti torna il silenzio e pochi a chiedersi – seriamente – come si vive all’interno delle celle quando le storie non trovano più spazio nella cronaca quotidiana. Per approfondire l’argomento abbiamo intervistato Giulia Crivellini dei Radicali Italiani.
Giulia, milanese, dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza, è diventata avvocato a Roma, dove vive. Appassionata di diritto, fa parte della Conferenza dei Giovani Avvocati, cui accede a seguito di concorso. Ha promosso ricorsi per l’affermazione delle scelte di fine vita e a tutela dei diritti delle sex workers. Attualmente è tesoriera di Radicali Italiani e membro di Giunta dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica.
Giulia Crivellini che aria si respira negli istituti di pena?
L’aria che respiriamo quando conduciamo le visite all’interno delle case circondariali italiane e ci confrontiamo coi detenuti, gli agenti penitenziari e i direttori è satura del sovraffollamento che riscontriamo su larga scala, del personale sotto organico, dei lunghi tempi di accesso alle prestazioni sanitarie, delle strutture fatiscenti. Un’aria carica delle tensioni umane e sociali che, inevitabilmente, in tali condizioni emergono.
Abbiamo girato spesso per diversi istituti: di frequente non ci sono spazi all’aria aperta. In altri abbiamo notato locali sporchi e i bagni non sono sufficienti. A voi cosa risulta?
Gli spazi inadeguati e che necessitano una ristrutturazione sono solo un aspetto tra i tanti. La situazione varia molto da istituto a istituto, ma alcune criticità sono diffuse in modo cronico. Tra queste, per esempio, il fatto che le carceri ospitano un numero di detenuti di molto superiore a quello consentito, combinato spesso alla quantità insufficiente di agenti e di personale educativo. Un altro elemento problematico è rappresentato dai servizi sanitari: tempi di attesa lunghi, detenuti che denunciano di non riuscire a ottenere le prestazioni richieste. Con la crisi coronavirus queste criticità si sono manifestate in tutta la loro gravità: in seguito alle rivolte scoppiate negli istituti di pena 13 detenuti hanno perso la vita a causa (sembra) dei farmaci sottratti alle infermerie. Questo è il segnale che le tossicodipendenze – frequentissime nelle case circondariali – non sono trattate in modo appropriato.
Secondo lei, c’è un modo per uscirne?
Il Governo ha gli strumenti, li ha sempre avuti, ma finora è mancata la volontà. Il carcere è percepito dalla politica e dall’opinione pubblica come un mondo separato, isolato, del quale interessarsi solo quando la violenza o la tragedia è tale da non consentire di ignorarla. In quel caso si interviene provando a mettere una toppa, mentre ciò di cui il sistema di detenzione ha bisogno è di una riforma complessiva, che intervenga alle radici dei problemi, attivando meccanismi legislativi come la depenalizzazione dei reati minori.
Nella pratica e nella politica che cosa significa questa mancanza di etica?
Non ne faccio una questione di etica. Quanto di mancanza di attenzione per la legalità e di interesse verso una certa fetta della società. Quando si tratta di mettere sul piatto della bilancia le iniziative da portare avanti, pesano di più quelle che consentono di ottenere maggior consenso e di introdurre soluzioni che per i cittadini sono avvertite come prioritarie. Le carceri, coi detenuti e le loro famiglie, non rientrano certo in queste categorie. L’approccio dei governi che si sono succeduti negli ultimi decenni è stato quello di “fare” solo quando il danno era stato già prodotto e tale da rendere indispensabile un’azione. Così i detenuti e le loro famiglie “si tengono buoni” ancora per un po’, fino all’episodio successivo, quando poi si ripete lo stesso iter. Questo approccio non può funzionare in eterno.
Perché il Governo – già era informato sui rischi del Coronavirus – non ha predisposto un piano di salvaguardia per i detenuti e il personale penitenziario?
Per la stessa ragione: il sistema penitenziario è visto e vissuto come una questione secondaria nell’agenda della politica, anche quando invece ci sono tutti gli elementi che indicano una possibile crisi. Che le tossicodipendenze siano un problema estremamente comune nelle carceri è cosa nota, tuttavia il Governo non produce neppure i dati che gli consentirebbero di studiare il fenomeno e intervenire. Su trecento pagine di relazione al Parlamento sulle tossicodipendenze in Italia, solo 3 sono dedicate ai detenuti. Sono incomplete e sfornite di quelle informazioni che sarebbero essenziali. Credo sia emblematico dell’approccio verso le criticità che affliggono gli istituti penitenziari.
A parole desideriamo la pace ma se non arriva sappiamo convivere con la guerra: è l’ennesimo paradosso italiano?
Non è un paradosso, è l’approccio pragmatico di chi vuole ottenere il massimo risultato in termini di consenso col minimo sforzo. Fintanto che il livello di violenza può essere arginato con gli strumenti di cui già si dispone, non ci si muove per mettere in campo quelle misure che consentono di eliminarla alla base, di creare una cultura del diritto e della nonviolenza, che richiede, quindi, un lavoro molto più esteso.
A chi parla oggi la politica?
Parla agli elettori, come ha sempre fatto, ma con mezzi e modalità diverse, che si sono evolute insieme alla tecnologia. Consentono di eliminare i filtri e di raggiungere un pubblico molto più ampio rispetto a quello già interessato o simpatizzante. Un grande potenziale che non è semplice utilizzare a servizio della (e non contro la) democrazia e che, purtroppo, è spesso sfruttato tralasciando i contenuti: si fa demagogia o si attinge ai temi polarizzanti per creare fidelizzazione, come in passato, ma riuscendo a diffondere tali messaggi in modo più rapido e allargato. Tutto questo lascia un vuoto di democrazia, che riflette ciò in cui la politica, oggi, fa molta fatica a riuscire: instaurare un rapporto coi cittadini nei territori, nelle strade, nelle piazze e sviluppare soluzioni non “sulle” persone, ma a servizio delle stesse. Dai partiti mancano le idee e le iniziative per far sì che i cittadini disillusi, stanchi si sentano partecipi di processi di cambiamento e miglioramento sociale.
Che cosa rimprovera al Governo Conte bis?
Prima di questa crisi sono state tante le occasioni per dimostrare una diversità rispetto al Governo giallo-verde che lo ha preceduto. Su tutte, i decreti sicurezza e il memorandum Italia-Libia. Invece la tanto proclamata volontà di differenziarsi non si è mai tramutata in fatti. Non è detto che, con questa crisi, non ne pagheremo ulteriormente le conseguenze: aumentare – attraverso leggi ingiuste che non vengono abrogate – il bacino delle persone in stato di irregolarità e apportare tagli nelle strutture di accoglienza può solo essere fonte di ulteriori problemi nel momento in cui si combatte contro un nemico come il coronavirus. Il sistema di accoglienza e i Centri di permanenza per il rimpatrio sono, come le carceri, impreparati a gestire il contagio. Per non parlare di tutti gli invisibili, cioè coloro che a causa del primo decreto sicurezza sono divenuti irregolari e ora, fuori dal circuito dell’accoglienza, si trovano in situazioni in cui sono più esposti al rischio di essere contagiati.
La sua passione per le lotte sociali può essere vista come una ricerca spirituale?
Non direi. O meglio, dipende quale significato diamo alla parola spiritualità; su questo penso che ciascuno abbia la sua. La passione per le lotte a tutela e conquista dei diritti civili nasce sicuramente dall’incontro con il mondo radicale. Ma anche dal percorso che ho intrapreso quando ho scelto di diventare avvocato, nell’incontro con uomini e donne straordinari, nelle esperienze personali, anche dolorose.
Che cosa ama in particolare dell’Italia?
La cultura. E la capacità di chi la abita di inventare e inventarsi.
Oggi che cosa vuol dire abbracciare i Radicali Italiani?
Radicali Italiani ha delle caratteristiche che lo rendono diverso da tutti gli altri partiti: vive di autofinanziamento e l’iscrizione non preclude l’iscrizione ad altri movimenti e partiti politici. Nessuno può essere espulso dal movimento e unica condizione necessaria e sufficiente per farne parte è il versamento della quota annuale. Al contrario degli altri partiti politici che hanno come obiettivo primario la rincorsa al “potere”, il metodo e la vita statutaria radicale è esattamente l’opposto. È il metodo del prefiggersi ogni anno, al Congresso, obiettivi concreti.
Osservando quello che sta accadendo nelle ultime settimane non solo in Italia ma anche nel resto del mondo, sembra di vivere sotto un cielo striato da nuvole soprannaturali, che indicano la sventura in atto: un pezzo di universo chiuso al mondo esterno, ormai in preda al disastro. Siamo troppo negativi?
Non si tratta di negatività, siamo di fronte a una pandemia che non può essere sottovalutata. Le sue ripercussioni saranno – già sono – pesanti, in Italia, in Europa, nel mondo. Lo sono da un punto di vista sanitario, economico, finanziario e anche democratico. Questa crisi ci dimostra quanto siamo, ormai, connessi tra noi. Anche la risposta alla recessione che seguirà dovrà essere congiunta, non vi sono soluzioni alternative. L’Europa deve trovare in questa crisi l’occasione per rilanciare il suo ruolo e la sua funzione, a partire dalle politiche fiscali, economiche e monetarie che metterà in atto.
La terra non è qualcosa di sporco, ma è là dove cresce giorno dopo giorno il cibo che arriva in tavola: non è che abbiamo sottovalutato il problema dei rifiuti tossici nascosti qua e là dalla criminalità?
Per noi Radicali l’affermazione dello Stato di diritto è motivo principale di lotta, da sempre. In questo, la questione ambientale non è esclusa. Denunciamo da anni le storture e le anomalie che, su scala nazionale, si verificano nel ciclo di rifiuti, con danni gravissimi per la salute dei cittadini e anche per le loro tasche, poiché ci troviamo a pagare sanzioni milionarie a causa delle procedure d’infrazione poi divenute condanne applicati dall’Unione europea. Anche in questo caso l’approccio è sempre lo stesso: anziché risolvere il problema, si procrastina l’intervento fino a quando non è più possibile posticiparlo.
Salviamo i nostri diritti per salvare cosa?
Non esistono i “nostri” diritti. I diritti sono diritti di tutti. Lottando per le libertà e i diritti di uno, combattiamo per le libertà e i diritti di tutti, fuori e dentro i confini nazionali. Significa darsi da fare per garantire quanto acquisito e perché si ottenga di più, progredendo, annullando le discriminazioni che colpiscono le fasce più vulnerabili. Significa salvaguardare la democrazia, i suoi principi e le sue fondamenta e, laddove, ancora non c’è, vuol dire promuoverla.