“L’acciaio oltre il carbone. Nuovi orizzonti a tutela della salute, dell’ambiente, del lavoro”. Legambiente: “Per garantire un futuro allo stabilimento ex Ilva servono salvaguardia della salute, rilancio dell’occupazione, investimenti per produrre acciaio pulito”…
La decarbonizzazione della siderurgia è possibile investendo sull’elettrico prodotto da fonti rinnovabili a vantaggio della salute (permangono gravi impatti sanitari presso impianti più inquinanti), dell’occupazione (+ 900.000 gli addetti nelle Fonti Energetiche Rinnovabili (FER) nel 2050) e dell’innovazione industriale italiana.
La sfida del Green Deal spinge l’Europa verso obiettivi ambiziosi di neutralità climatica al 2050 ma cosa significa questo per il settore siderurgico e in particolare per l’impianto Acciaierie d’Italia (ex Ilva) di Taranto? Quale futuro è possibile ipotizzare per l’unico impianto di produzione di acciaio primario in Italia, il più grande d’Europa, che nonostante annose vicende giudiziarie e legali, crisi occupazionali e produttive, nonché sanitarie, oggi sembra ancor più ancorato a un immobile passato.
Di decarbonizzazione, salute e occupazione si è parlato oggi a Taranto nel corso del convegno nazionale “L’acciaio oltre il carbone. Nuovi orizzonti a tutela della salute, dell’ambiente, del lavoro”, organizzato da Legambiente, che ha visto la partecipazione di esperti e ricercatori, rappresentanti delle istituzioni e delle parti sociali, innovative aziende europee del settore siderurgico e referenti istituzionali locali ed europei, con il sostegno ai lavori da parte del ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica Pichetto Fratin espresso tramite una lettera inviata al presidente nazionale dell’associazione.
Neutralità climatica, aria pulita e aumento dei posti di lavoro sono obiettivi strettamente connessi e fortemente collegati al processo di decarbonizzazione della siderurgia attraverso il passaggio alla tecnologia DRI H2 based (Direct Reduced Iron – preridotto) e ad arco elettrico (EAF).
La riconversione dell’industria e del settore siderurgico passano, necessariamente, per un incremento ed una veloce transizione del settore elettrico verso le rinnovabili presenti sul territorio nazionale, ovvero impianti fotovoltaici (25 m2/abitante), 10.000 turbine eoliche e l’idroelettrico. Tale capacità permetterebbe al 2050 di produrre 600 TWh/anno di elettricità verde con un’incidenza dell’acciaio prodotto con idrogeno pari a circa il 5% (un fabbisogno corrispondente a 30 TWh). Dal punto di vista occupazionale, con l’adozione della tecnologia DRI, a fronte di un modesto calo dei posti di lavoro nell’industria siderurgica, corrisponderebbe un un’enorme graduale crescita di forza lavoro qualificata, che nel 2050 raggiungerà 900.000 addetti, per la realizzazione, gestione e manutenzione degli impianti a FER. Questi alcuni dei dati illustrati nello studio realizzato per Legambiente dall’Ing. Alex Sorokin e illustrati durante il convegno.
La tecnologia DRI è già realtà in diverse parti del mondo come l’India (28 milioni di tonnellate (Mt)/anno di capacità DRI) e l’Iran (26 Mt/anno di capacità DRI). In Europa nuovi impianti sono in costruzione in diversi Stati. E sono già quattro gli esempi europei cui è possibile ispirarsi: la Svezia con il modello HYBRIT che grazie a un impianto DRI a idrogeno verde punta a produrre dal 2026 1,3 Mt l’anno di acciaio pulito, per arrivare a 2,7 Mt nel 2030 e la H2 Green Steel che punta invece a produrre 5 Mt di acciaio verde a Boden (avvio della produzione previsto entro la fine del 2025); la Finlandia dove la Blastr Green Steel vuole investire 4 miliardi di euro per produrre 2,5 milioni di tonnellate (Mt) di acciaio low carbon dal 2026 utilizzando idrogeno verde; la Germania che punta a produrre 100mila tonnellate l’anno di acciaio tramite idrogeno grigio ottenuto dal gas, per poi passare all’idrogeno verde, tramite un progetto avviato nel 2019 da Arcelor-Mittal che prevede un investimento di 65 milioni di euro per sperimentare la produzione di acciaio verde ad Amburgo; e infine l’Austria, che con il progetto H2FUTURE, finanziato dall’Unione europea, ha costruito a Linz quello che attualmente è il più grande impianto pilota per la produzione di idrogeno per l’industria siderurgica.
“Per salvare l’ex Ilva, siderurgia e rinnovabili devono convivere – dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – solo imboccando senza tentennamenti la strada della decarbonizzazione è possibile garantire la produzione di un settore ‘hard to abate’ come è quello dell’acciaio, strategico per l’economia di Taranto, della Puglia e dell’intero Paese. Lo esige il drammatico tributo di morti e malati che ha pagato il territorio tarantino. Le risorse e le possibilità tecnologiche ci sono, manca il coraggio di un’azione politica volta a intraprendere la strada dell’innovazione. L’ex Ilva da clamorosa sconfitta per il paese deve diventare un simbolo della rinascita e della transizione ecologica. Taranto da una parte ha già dimostrato di voler puntare su innovazione e sostenibilità con il primo parco eolico offshore del Mediterraneo. Ora deve farlo anche sul fronte della siderurgia e della produzione dell’acciaio primario”.
Attualmente l’Italia, con oltre 21 milioni di tonnellate (Mt) nel 2022, è il secondo paese europeo, dopo la Germania, per produzione siderurgica. Il settore impiega complessivamente circa 70 mila addetti per una produzione composta all’80% di acciaio secondario, prodotto cioè dalla fusione di rottami ferrosi nei forni elettrici, e 20% di acciaio primario, di cui l’impianto di Taranto è l’unico stabilimento. Garantire l’acciaio primario è di fondamentale importanza, sia perché è l’unico materiale utilizzabile per determinate applicazioni (automotive, costruzioni e alimentari) sia per assicurare la disponibilità di rottami per le aziende che lavorano l’acciaio da riciclo che per il 73% dipendono dal mercato nazionale. Ma la sua produzione è quella più inquinante dato che si realizza tramite il ciclo integrale con altoforno, utilizzando minerale ferroso e carbone come materie prime, responsabile di gravissimi impatti ambientali e sanitari sui cittadini del capoluogo ionico.
Le valutazioni di danno sanitario (VDS) effettuate hanno riscontrato nel tempo eccessi di mortalità e di numerose malattie e un profilo sanitario alterato della popolazione locale, confermato dalle numerose indagini epidemiologiche fino al recente VI Rapporto SENTIERI. Questo, per il periodo 2013-2017, ha messo in evidenza, tranne che per le malattie dell’apparato urinario, aumenti di casi per tutte le altre categorie prese in esame (tumori maligni, malattie del sistema circolatorio, malattie dell’apparato respiratorio, malattie dell’apparato digerente), con un incremento che ha interessato entrambi i sessi e anche il numero di ricoverati in età pediatrica. L’ultima VDS effettuata dalla Regione Puglia ha attestato la permanenza di un rischio sanitario residuo non accettabile relativo ad uno scenario di produzione di 6 milioni di tonnellate/anno di acciaio, in particolare per gli abitanti del quartiere Tamburi. La quantità di CO2 emessa dal solo stabilimento ex Ilva è infatti pari circa a quella prodotta dall’intera regione Lazio, come emerso dalla condanna per disastro ambientale a carico di tutti gli imputati del processo “Ambiente svenduto”, dove Legambiente si è costituita tra le parti civili.
“E’ fatto di malati e morti il tributo già pagato dai cittadini di Taranto e dai lavoratori dell’ex Ilva alle esigenze della produzione di acciaio nel nostro Paese – dichiara Lunetta Franco, presidente Legambiente Taranto – Non ne vogliamo altri: la salute delle persone non può più essere sacrificata, la sua tutela deve essere al centro di qualunque ragionamento sul futuro dello stabilimento”.
Legambiente ribadisce quindi con forza la necessità di rendere obbligatoria la valutazione preventiva dell’impatto sanitario (VIS), per stabilire se e quanto si possa produrre senza compromettere la salute degli abitanti, oltre che dei lavoratori, di Taranto. L’obiettivo della VIS è oggi di stimare quanti casi si potrebbero evitare adottando scelte sostenibili per ambiente e salute, sapendo che ogni microgrammo per metro cubo di PM2,5 in meno eviterebbe da 12 a 18 decessi l’anno (in media 6,8 casi attribuibili per 100.000 abitanti; 7,54/100.000 abitanti a Tamburi). Questa è una delle sei proposte avanzate durante il convegno per costruire un futuro pulito per la siderurgia, a partire da Taranto. Le altre propongono di: 2) definire linee guida nazionali di politica industriale per orientare le scelte delle imprese verso decarbonizzazione e innovazione dei processi produttivi; 3) prevedere la costruzione solo di forni elettrici e impianti per la produzione di DRI (preridotto), che abbattono emissioni inquinanti e di CO2 e sono pronti alla rivoluzione dell’idrogeno verde. Sarebbe antistorico ricostruire a Taranto AFO5, l’altoforno più grande d’Europa; 3) abbattere le barriere burocratiche che ostacolano lo sviluppo delle rinnovabili ed incrementare significativamente e accelerare la produzione di energia rinnovabile e promuovere una filiera industriale italiana delle rinnovabili; 4) bonificare le aree contaminate, possibile volano di una diversificazione produttiva capace di creare nuove occasioni di lavoro; 5) garantire una giusta transizione, con Accordi di programma stringenti, nei territori interessati dalla riconversione industriale.
“Vogliamo ancora una volta ribadire che il futuro della Puglia deve passare da un deciso cambio di passo rispetto al passato – afferma Daniela Salzedo, direttrice Legambiente Puglia – Le realtà industriali di Brindisi e Taranto possono essere la chiave di volta per accelerare uno sviluppo ecocompatibile e i lavoratori pugliesi possono diventare operatori di un futuro davvero sostenibile”.