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Commossa memoria delle vittime delle foibe e degli esuli giuliano-dalmati al Teatro Civico di Rho. Struggente lo spettacolo “Il sentiero del padre” di e con Davide Giandrini…
Serata di grandi emozioni al Teatro Civico di Rho il 10 febbraio, Giorno del Ricordo. L’evento in memoria delle vittime delle foibe e degli esuli giuliano-dalmati, sostenuto dal vicesindaco Maria Rita Vergani nei percorsi della Memoria e presentato da Paola Cupetti (responsabile dell’Ufficio Cerimoniale del Comune), si è declinato in tre tappe.
Rho – La prima ha visto protagonista la presidente del Gruppo Bracco, Diana Bracco: presente in sala, l’imprenditrice “solida come le rocce istriane” (così la chiamava il marito Roberto De Silva) ha affidato a un video il ricordo del nonno Elio, fervente irredentista, nativo dell’isola di Lussino, e fondatore a Milano del Gruppo Bracco nel 1927, e del padre Fulvio che si prodigò per gli esuli istriani del campo profughi di Villa Reale di Monza.
“Papà è nato il 15 novembre 1909. La nostra famiglia, fortemente irredentista, fu condannata a non mettere più piede su quelle terre, Istria, Fiume e Dalmazia, andate nelle mani di Tito – racconta nel video Diana Bracco – Papà è tornato a Neresine nel 1970, ritrovò i profumi e i colori che aveva abbandonato da ragazzino. L’Istria è selvaggia e battuta dal vento, ha rocce dure e aspre, ma vere. Ha dato una impronta di fermezza e di rigore anche a lui. Gli ha forgiato il carattere e donato le caratteristiche tipiche della generazione di pionieri dell’industria italiana, all’origine di grandi famiglie che hanno nomi prestigiosi. Giustamente Fulvio Bracco è entrato in questo empireo. Ha poi sposato Anita Coppini, una donna molto in gamba, basti pensare che è stata una delle prime laureate in chimica e farmacia a Pavia”.
Diana Bracco, accolta al Teatro dal presidente Fiorenzo Grassi e dal Sindaco Andrea Orlandi, ha ricordato del padre la passione per il canottaggio, imparato sul mare e ripreso negli anni universitari a Pavia. Quindi il suo amore per la musica: “E’ una delle forze della natura che unisce e non divide mai. La Scala esercitava un fascino enorme, era punto fermo a Milano: lui riuscì ad avere un invito dal dottor Calvi, che lo invitò sempre e gli lasciò il palco. Da lì la nostra passione, che porta sempre me alla Scala e mia sorella all’Accademia Santa Cecilia a Roma. Abbiamo finanziato molti progetti per la Scala: era il modo di papà per restituire quel che Milano gli aveva dato. Tutto questo era veramente importante ma la cosa che lo rese veramente felice fu essere nominato nel 1963 Cavaliere del Lavoro”.
In un secondo video proposto al Teatro Civico l’intervista di Giorgio Almasio, responsabile relazioni esterne del Teatro, ad Abdon Pamich, esule fiumano e marciatore olimpico, vincitore di numerose medaglie. Oggi 92enne, Pamich ha anche ricordato la vittoria di una 20 chilometri corsa a Rho negli anni Sessanta tra la folla che sosteneva gli atleti.
Il 10 febbraio 1947, giorno in cui fu firmato il trattato di Parigi, che assegnava alla Jugoslavia L’Istria, il Quarnaro, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia, in precedenza facenti parte dell’Italia, Pamich era a Fiume. “Vivevo lì con la mia famiglia, papà già non c’era più – ha raccontato il pluripremiato sportivo italiano – Fiume prima era una città allegra, i caffè erano pieni di gente che discuteva di arte, musica, politica. Il 3 maggio 1945 questa è diventata una città di morti, il giorno dopo iniziarono a sparire le persone, venivano prelevate di notte dalla famosa polizia segreta jugoslava, l’Osna, e poi sparivano. Non ci si poteva fidare di nessuno, c’era sempre un delatore che poteva metterti nei guai. L’atmosfera era irrespirabile. Ci hanno messi nelle condizioni di fuggire. Era una città morta, bisognava avere una sola lingua, un solo pensiero. Mamma ha atteso che fossero aperte le opzioni e siamo partiti regolarmente. Io e mio fratello, a 13-14 anni abbiamo vissuto diverse peripezie. Da Fiume a Trieste abbiamo impiegato più di 20 ore. A Trieste ci hanno rifocillato, poi abbiamo vissuto in campi profughi, prima a Udine, poi un anno a Novara dove finalmente ci hanno dato dei vestiti perché eravamo partiti con maglietta e calzoncini corti, senza nulla per non dare nell’occhio. In tasca pochi spiccioli per arrivare alla frontiera. Dopo un anno la nostra famiglia si è riunita nei pressi di Genova. Eravamo visti con diffidenza. Molti pensavano che avessimo lasciato terre credute un paradiso terrestre”.
Poi l’avvio della carriera sportiva: “Una cosa è la vita, una lo sport. Io sono nato in mezzo agli sportivi, avevo 5 anni quando maturai l’idea di fare sport. E’ logico che il passato gioca sul futuro e certe motivazioni intime hanno spinto a muovermi con maggiore determinazione. Quanto ho passato è stata una scuola di vita che rimane tuttora”.
Inevitabile il riferimento a Rho città olimpica per Milano-Cortina 2026 unito a un ricordo vivo di una esperienza vissuta in città: “Partecipare alle Olimpiadi è il massimo cui possa aspirare un atleta, già solo esserci è un merito. Ai giovani consiglio di restare sereni, di guardare allo sport come divertimento, altrimenti non è più sport. Se penso a Rho mi viene in mente una vittoria vissuta nella vostra città nei primi anni Sessanta: ho vinto una 20 chilometri, c’era un pubblico folto, a quei tempi venivano a vedere le corse a bordo strada ed era pieno di gente”.
Per la terza parte della serata, palco affidato a Davide Giandrini per “Il sentiero del padre – Viaggio tra i segreti delle foibe carsiche”, un testo potente che racconta la fuga da Pola verso la salvezza di un bimbo di 9 anni e del padre. Il piccolo Francesco coglie nei genitori una ansia crescente, quando viene data loro una bandiera jugoslava da esporre e quando origlia le riunioni con altri amici di famiglia, a voce bassa, la sera. La situazione precipita quando il padre viene picchiato selvaggiamente nel suo negozio di ciabattino, Mamma Maria, italiana orgogliosa, non accetta di lasciare la casa. Gianni prende per mano Francesco e affronta notti di cammino nei boschi verso la salvezza, che prende la forma di una barca sul mare. Il racconto termina dicendo “Nulla è stato fatto per le vittime delle foibe. Nulla per i 350mila esuli. Nulla per Maria, Gianni, Francesco”.
Un racconto drammatico e struggente che ha toccato il cuore dei trecento spettatori presenti, a partire dal Sindaco Andrea Orlandi.
“Dopo queste emozioni penso che se leggessimo la storia con gli occhi dei bambini che ne sono protagonisti e se mettessimo in capo a loro il vero potere per decidere, forse tante violenze e tanti conflitti ci sarebbero risparmiati – ha concluso il Sindaco visibilmente commosso – Purtroppo storie come quella appena ascoltata si ripetono ancora oggi in tante parti del mondo, il ricordo ci deve servire per creare memoria collettiva e condivisa su alcuni passaggi della storia e deve diventare impegno e responsabilità affinché questo non accada più. E’ compito di ciascuno, nel proprio ruolo. Ringrazio chi ha lavorato a questa serata, a partire dalla dottoressa Bracco che ha condiviso con noi uno spaccato di vita della sua famiglia. Un grazie particolare al Gruppo Bracco, al Teatro Civico Roberto de Silva, all’Associazione Nazionale Venezia, Giulia e Dalmazia, qui rappresentata da Anna Maria Crasti, vicepresidente del Comitato provinciale di Milano”.
Nella foto Fiorenzo Grassi, Diana Bracco e Andrea Orlandi