Il “dossier giustizia” agita la maggioranza giallo-rossa. Dal tema delle intercettazioni al nodo della prescrizione, passando per il riordino del Csm. Ne parliamo con Paola Tafuro, avvocato esperta di diritto penale, in particolare, di diritto penale societario e tributario, di delitti contro la Pubblica amministrazione e contro il patrimonio, di reati ambientali.
Avvocato Paola Tafuro, iniziamo parlando del “decreto intercettazioni” che entrerà in vigore il prossimo 1 gennaio, nella forma disegnata 2 anni fa dall’allora Ministro Orlando. Il Ministro Alfonso Bonafede intende modificare la norma che vieta la trascrizione delle comunicazioni lesive della privacy e non rilevanti per i fatti oggetto di indagine. Rimarrebbe il vincolo per Pm e Gip a usare solo i brani essenziali delle intercettazioni, in modo da impedire che i virgolettati finiscano dal segreto istruttorio direttamente sulle prime pagine dei giornali. Questa modifica, secondo lei, si farà?
Spero che dal punto di vista politico non sia resa possibile, e l’attuale modifica della maggioranza mi fa auspicare che non venga portata a compimento. Dal punto di vista giuridico, penso sia un’aberrazione. Nel senso che l’utilizzo delle intercettazioni delle conversazioni quale mezzo di ricerca della prova ha avuto, nel tempo, un suo riconoscimento costituzionale e giuridico; questo è stato possibile perché è stata rilevata la necessità di dare agli inquirenti delle forme di investigazione che fossero al passo con i tempi e con l’evoluzione dei rapporti umani. Però, consentire a questo strumento di invadere la libertà personale oltre i limiti del consentibile, mi sembra veramente voler tornare secoli indietro rispetto all’evoluzione giuridica del nostro ordinamento.
Gli avvocati rivendicano il diritto della difesa a non essere ascoltata come limite invalicabile nella tutela di chi è indagato e del rapporto fiduciario con il suo difensore. Cosa ne pensa?
Lo stato dell’arte è questo: nel corso delle intercettazioni, vengono registrati anche i colloqui con gli avvocati. Questi colloqui sono registrabili ma non utilizzabili. Se vale il principio secondo cui, quando l’imputato parla con il difensore, quello che dice non può essere utilizzato contro di lui, non si può nemmeno consentire che quello che dice con il difensore possa essere ascoltato da altri. Perché, in questo modo, si raggirerebbe il diritto inviolabile alla difesa.
Veniamo ad un’altra questione calda: quella sulla prescrizione. Il Ministro Bonafede ha dichiarato di non voler fare alcun passo indietro sulla norma che abolisce la prescrizione del reato dopo il primo grado. E questa posizione è una ulteriore causa di attrito in seno alla maggioranza e nel mondo della giustizia.
Stiamo tornando indietro di secoli e quello della prescrizione è l’esempio più lampante, proprio perché l’istituto della prescrizione è uno dei capisaldi delle civiltà giuridiche. Lo Stato ha un termine entro il quale deve stabilire se un fatto, che è portato a conoscenza dell’Autorità giudiziaria, deve essere o meno sanzionato penalmente. Il termine minimo entro il quale lo Stato, per il delitto più semplice, deve decidere è di sei anni, salvo poi che intercorrano dei periodi che si chiamano di “interruzione della prescrizione” (ad esempio, la richiesta di rinvio a giudizio); in questo caso, il termine aumenta a sette anni e mezzo.
Se lo Stato non riesce a garantire ad una persona offesa di avere una sentenza definitiva in ordine ad un fatto di cui è stata vittima nel termine di 7 anni e mezzo, non è uno Stato di diritto e non deve essere concesso un termine più lungo per arrivare a stabilire se deve essere o meno applicata una sanzione o riconosciuto un risarcimento.
C’è, poi, l’altra faccia della medaglia: ovviamente, anche l’imputato deve essere punito nel più breve tempo possibile rispetto a quello cui ha commesso il fatto illecito. La corruzione, ad esempio, ha un tempo di prescrizione minimo di 10 anni: se in dieci anni lo Stato non riesce ad assicurare alla giustizia un corrotto e un corruttore, allora significa che non sarà neanche in grado di prevenire i futuri reati che questi stessi soggetti possono compiere.
L’Unione delle Camere Penali ha indetto l’astensione dal 21 al 25 ottobre: è d’accordo? Aderirà?
Certamente aderirò. Anzi, io stessa ho proposto che l’astensione venga protratta ad oltranza. Dovremmo non presentarci in Aula, imporre la nostra voce per fare capire ai cittadini di che cosa realmente stiamo parlando. Se si fa passare la riforma come il modo per impedire ai corrotti di farla franca, siamo anni luce lontani dalla realtà.
Lo stop alla prescrizione potrebbe causare, a suo giudizio, un ingorgo dei processi, rischiando di far naufragare qualsiasi tentativo di ridurre i tempi della giustizia penale?
Sì, questo potrebbe accadere, perché ci ritroveremmo con migliaia di processi che non verrebbero trattati, proprio perché non ci sarebbe più una priorità, ovvero quello della decorrenza della prescrizione.
Caso Csm: dopo avere proposto il sorteggio per scegliere i membri del Consiglio Superiore della Magistratura, il Ministro Bonafede ha aperto alla terza via, ovvero allo studio assieme agli alleati di un sistema diverso. Anche il Vicepresidente del Csm, David Ermini, aveva definito il sorteggio “incostituzionale”. Lei, cosa ne pensa?
Il problema fondamentale della Magistratura è che l’evolversi della carriera del magistrato non si fonda su una valutazione di merito, ma su età e su logiche come quelle che sono emerse nei fatti che hanno coinvolto il Csm negli ultimi mesi. Penso che si dovrebbe trovare una formula per evitare il correntismo, anche se credo che in realtà la carriera in Magistratura non è poi molto diversa dalle carriere di tutti noi nei nostri rispettivi ambienti e fa il conto con le ambizioni personali; tuttavia, visto che questa forma ha vissuto un suo momento di crisi estrema, dovremmo trovare un nuovo modo per cui anche la nomina dei membri del Csm dovrebbe essere collegata ad una valutazione di merito del lavoro svolto e delle capacità organizzative, e non essere basata sulle ideologie che qualche magistrato manifesta, e che consentono di riunirsi in correnti.
Se posso aggiungere una riflessione: credo esista un problema “madre”. Essendo venuto meno negli ultimi venti anni, il ruolo primario della politica, la Magistratura ha finito per supplire e avere, anche lei, un risvolto di natura politica, inserendosi in àmbiti che sarebbero dovuti rimanere estranei alla Magistratura. Da qui nascono i problemi legati al carrierismo, alla sovraesposizione mediatica.
Il Consiglio Nazionale Forense sta portando avanti una battaglia per un intervento legislativo che consenta l’inserimento dell’avvocato in Costituzione per rivendicare la necessità che, accanto ad una magistratura «la più forte al mondo», occorra prevedere un’avvocatura altrettanto forte per bilanciare il sistema dei poteri democratici. Qual è la sua opinione?
Mi sta molto a cuore: con la riforma dell’articolo 111 della Costituzione che prevede che il processo si svolga nel contraddittorio tra le parti davanti a un giudice terzo e imparziale, si è introdotta una sorta di parità tra accusa e difesa. Però, mentre la Magistratura è un organo riconosciuto dalla Costituzione, la categoria degli avvocati, che dovrebbe avere pari dignità, non ha un suo riconoscimento. Quindi, è evidente che il completamento di quella riforma, che portava alla modifica dell’art. 111, dovrebbe passare attraverso il riconoscimento costituzionale dell’avvocatura. Tra l’altro, questa modifica garantirebbe un maggiore riconoscimento anche sociale: nell’approccio che il cliente ha, a fronte di una magistratura così forte anche dal punto di vista mediatico, si finisce, a volte, per avere un ruolo e delle possibilità certamente inferiori nel processo, anche agli occhi del cliente (imputato o persona offesa).
VALENTINA RENZOPAOLI – www.leurispes.it