Serve ancora leggere e raccontare le storie delle persecuzioni, del martirio che hanno subito centinaia migliaia di religiosi, credenti nei Paesi dell’Est governati dai regimi totalitari comunisti? E’ una domanda che ho posto prima a me stesso e poi ai miei lettori quando ho presentato la storia di due martiri religiosi: il 1° un sacerdote salesiano slovacco don Tito Zeman; il 2° un vescovo poi cardinale della Chiesa cattolica uniate romena, Iulius Hossu.
Entrambi beatificati dalla Chiesa. Ora intendo presentare un’altra figura straordinaria che ha subito diciotto anni di dura prigionia nei Gulag sovietici, mi riferisco al metropolita della Chiesa greco-cattolica ucraina, monsignor Josyf Slypyj. Utilizzo il testo scritto da monsignor Giovanni Choma, pubblicato dall’associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), “Josyf Slipyj. Padre e confessore della Chiesa ucraina martire”. Sette capitoli per descrivere il calvario subito da un principe della Chiesa cattolica, iniziato nel 1945 e finito nel 1963, anno della sua liberazione. Non mi soffermo ai dati biografici del metropolita greco-cattolico ucraino di Leopoli, tuttavia è importante conoscere la storia di monsignor Slypyj, figlio di una terra che in questi mesi sta subendo una nuova immane tragedia.
Alla morte del metropolita greco-cattolico dell’Ucraina Andrej Szeptycki (1865-1944), il 1° novembre 1944, Slypyj divenne Capo e padre della Chiesa cattolica ucraina. Era un momento terribile per il suo Paese, stretto tra la morsa dei nazisti e dei comunisti. L’11 aprile 1945 il metropolita Slipyj venne arrestato dai sovietici e condannato a otto anni di lavori forzati nei gulag, mentre veniva inscenato un Sinodo illegale che proclamava la “riunificazione” della Chiesa cattolica ucraina con il Patriarcato ortodosso di Mosca, dominato dal regime sovietico. Le chiese dei greco-cattolici, circa 3.000, vennero date agli ortodossi e quasi tutti i vescovi e i sacerdoti furono uccisi o incarcerati. Nel 1953 l’arcivescovo Slipyj subì una seconda condanna a cinque anni di Siberia e nel 1958 una terza a quattro anni di lavori forzati. Nel 1962, a settant’anni, patì la quarta condanna, consistente nella deportazione a vita nel durissimo campo di Mordovia. In tutto, l’eroico presule passò 18 anni nelle carceri e nei gulag.
Il testo di mons. Chona descrive i vari luoghi di prigionia s soprattutto i lunghi estenuanti viaggi che duravano mesi nel freddo polare della Siberia, dentro vagoni ferroviari senza nessun confort, anche questi strumenti di tortura. Talvolta questi vagoni venivano lasciati a binario morto per molto tempo, era assolutamente normale, come normale era l’assenza di igiene, di medicinali e di cibo sufficiente. “Questi viaggi in treno da un capo all’altro dell’immenso territorio sovietico, costituivano in generale una delle peggiori disgrazie che potessero capitare a un condannato”.
Una interminabile via crucis di spostamenti, senza nessun motivo da un lager all’altro, lo scopo era quello di fiaccare l’accanita resistenza del metropolita e indurlo a sconfessare la sua fede (il che avrebbe costituito una grande vittoria per l’ateismo e per i nemici del cattolicesimo) o farlo morire.
Intanto, giorno dopo giorno, lager dopo lager, gli anni passavano, e se anche cambiavano i nomi dei luoghi e dei carnefici, “il martirio era sempre uguale o peggiore, sia nel campo di Potma-Javas, come in quello di Kimrov, carcere di massima sicurezza, come nel lager ottavo di Mordovia, destinato agli invalidi, come in qualsiasi altro degli innumerevoli lager disseminati nell’immenso arcipelago Gulag[…]”. Quello che è grave che in Occidente trapelava poco di questo interminabile carcere concentrazionario e nonostante la pubblicazione dei tre volumi di Aleksandr Solgenicyn, non si riusciva a rompere il muro di omertà intorno all’impero sovietico.
Il III° capitolo riporta alcuni brani, articoli, libri e saggi vari di testimonianze che sono in relazione con il martirio subito per 18 lunghi anni da mons. Slypyj. Ci sono uomini e donne che hanno visto e parlato con il metropolita durante la sua prigionia. Interessante tra le varie testimonianze quella del padre gesuita Pietro Leoni, sopravvissuto ai lager sovietici, che ha descritto gli orrori del campo di transito di Kivov. Nel IV° capitolo sono pubblicate una parte delle lettere dal Gulag, in pratica degli ultimi anni di prigionia del 1961-62. Gli ultimi tre capitoli si occupano della liberazione, dell’interessamento dei Papi, Giovanni XXIII, Paolo VI. Senza entrare nel documento ufficiale di rilascio del prigioniero del 26 gennaio 1963, il libri di China si domanda: “Che cosa avrà indotto Kruscev a liberare il metropolita per spedirlo in Occidente quale testimonianza degli orrori del regime sovietico?”: Non possiamo sapere se sono state le preghiere levate a Dio da tutto il mondo cattolico, oppure le strategie politiche interne al sovietismo. Mentre per il professore Roberto De Mattei, il motivo è un altro“In quegli anni i gulag comunisti pullulavano di prigionieri per motivi religiosi, specialmente della Chiesa cattolica ucraina. Sarebbe stato uno scandalo se nell’aula del Concilio fossero stati assenti i vescovi vittime della persecuzione e presenti invece gli esponenti del Patriarcato di Mosca, che appoggiavano i carnefici. Fu svolta dunque una trattativa tra la Santa Sede e il Cremlino, per permettere al metropolita Slipyj di partecipare al Concilio”. (Onore all’Ucraina e al cardinale Josyf Slipyi, nel 130esimo anniversario della sua nascita (1892-2022) CR 1732)
Infine il libro racconta gli ultimi passaggi dal gulag all’esilio a Roma, monsignor Slypyj prima di partire voleva prima recarsi a Leopoli, non gli fu concesso. Poi per certi versi ebbe una crisi di coscienza, “io non posso abbandonare il mio popolo”, alla fine si convinse, ma prima consacrò segretamente vescovo il padre redentorista Wasyl Welyckowskyj. Successivamente il libro si occupa dei viaggi faticosi di Slypyj, malgrado l’età avanzata, tra il 1968 e il 1976 presso le comunità della diaspora ucraina nelle Americhe, in Australia e in Europa, continuando a svolgere il ruolo di Pastore del suo popolo. Nel 1976 lanciò un appello alle Nazione Unite in favore delle vittime del comunismo e nel 1977, in un drammatico intervento presso il Tribunale Sakharov, denunciò ancora una volta la persecuzione religiosa in Ucraina. Il mondo guardava a lui e al cardinale József Mindszenty (1892-1975) come a due grandi testimoni della fede cattolica nel Novecento.
Il cardinale Josef Slipyj morì in esilio a Roma a novantadue anni il 7 settembre 1984 ed è ora sepolto a Leopoli, nella cripta della cattedrale di San Giorgio, accanto al metropolita Andrej Szeptycki. Giovanni Paolo II lo definì «uomo di fede invitta, pastore di fermo coraggio, testimone di fedeltà eroica, eminente personalità della Chiesa» (L’Osservatore Romano, 19 ottobre 1984). Mi avvio alla conclusione ricordando che l’eroica resistenza del cardinale Josyf Slypyj, l’identità religiosa e politica dell’Ucraina, ci aiutano a confidare in un futuro migliore del Paese.
Kiev fu il luogo della conversione del popolo russo alla Chiesa cattolica, e da Kiev, non da Mosca, è destinata a partire la seconda grande conversione della Russia annunciata dalla Madonna a Fatima. Del messaggio di Fatima il cardinale Slipyj fu un grande zelatore. Il cardinale Slipyj nel suo testamento, così si rivolse alla Vergine: «Seduto sulla slitta e facendomi strada verso l’eternità…recito una preghiera alla nostra protettrice e Regina del Cielo, la sempre Vergine Madre di Dio. Prendi la nostra Chiesa ucraina e il nostro popolo ucraino sotto la tua efficace protezione!» (Memorie, pp. 524-525). Facciamo nostre le sue parole in questo momento tragico della storia del mondo e proclamiamo a voce alta: “Onore al cardinale Slipyj e al suo popolo martire”.
DOMENICO BONVEGNA
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