Rivoluzione Italiana) significa “toccare un tasto delicato e sfiorare una questione potenzialmente divisiva, soprattutto a ‘Destra’”, lo scrivono Invernizzi e Sanguinetti nel recente libro, “Conservatori. Storia e attualità di un pensiero politico”. (Ares, 2023).
Tuttavia l’unità è stata fatta attraverso una guerra di conquista di uno Stato, il Regno Sabaudo e Piemontese a danno di altri Stati contigui e pacifici, come il Regno delle due Sicilie. Di fronte a questa realtà storica, non possono non sorgere diverse e gravi perplessità, non soltanto per la modalità. La conquista da noi ha avuto caratteristiche diverse rispetto ad altri Paesi, qui c’è stata una vera e propria “incorporazione d’imperio nel regno sabaudo degli Stati sconfitti, esiliandone le dinastie e cancellandone le classi dirigenti civili e militari, alcune di alta qualità […]”. In pratica si è creato uno Stato monarchico-parlamentare, “totalmente accentrato e burocratizzato, elitario e classista, il cui territorio era controllato capillarmente dalle forze militari e poliziesche”. Inoltre l’unità non è stato solo un fenomeno politico-militare, bensì anche l’occasione di una “vasto disegno di decostruzione e rimodellamento dell’ethos italiano”. Sostanzialmente il cambiamento di regime è stata un’operazione di “pulizia culturale”, che ha attaccato alla radice le tradizioni degl’italiani, per distaccarli il più possibile dal loro pervicace cattolicesimo ‘vissuto’ e dalla fervente devozione alla Chiesa”.
In pratica si è cercato di costruire un’identità nazionale diversa e alternativa, una specie di religiosità “civile”, edificata sulla mitologizzazione della guerra di unificazione e “sulla “beatificazione” dei suoi e non di rado discutibile protagonisti”. Peraltro, senza voler enfatizzare troppo la frase di Massimo Taparelli d’Azeglio (1798-1866) sulla necessità di “fare” gli italiani, secondo Invernizzi e Sanguinetti, “appare ormai di evidenza solare che il Risorgimento è stato un disegno – attuato – di rieducazione civile e di pedagogia di segno modernistico e che, nelle intenzioni dei suoi artefici, è stato il compimento della ‘rivoluzione culturale’ e religiosa del Rinascimento bloccata in Italia dalla Riforma cattolica, una rivoluzione attuata mediante il trapianto a freddo di quella cultura illuministica e secolaristica, che per secoli le classi dirigenti religiose e politiche italiane avevano tenuto al di fuori dei propri confini”.
Infatti, il nuovo Regno, soprattutto nella società, “eserciterà un rigido controllo del sistema formativo e culturale, imporrà il servizio militare obbligatorio triennale a tutti i cittadini, la sua sarà una politica rigidamente giurisdizionalistica e anticlericale che, pur conservando nel suo Statuto per il cattolicesimo il ruolo di religione di Stato, imprigionerà vescovi renitenti e confinerà il Papa entro le mura vaticane, mentre lascerà invadere lo spazio pubblico da quello che è stato efficacemente definito ‘il giovedì grasso permanente di massoni, demagoghi e banchieri apatridi’”.
In pratica la nuova elite liberale di governo, farà la stessa cosa che ha fatto la Francia nel 1789. Stato accentratore con al centro la figura del prefetto, l’adozione del vessillo tricolore e uniformi militari indossate da milioni di uomini nel tragico primo conflitto mondiale. Naturalmente lo Stato-nazione unitario, ha creato “ferite”, “questioni”, rimaste a lungo aperte come la questione cattolica, con il sottoprodotto di quella “romana”; la questione meridionale; la questione sociale e la questione federale. E comunque occorre ribadire con forza, “L’Italia non è nata con il 1861-1870, e nemmeno con il 1948: l’Italia ha una storia ben più lunga e frastagliata di quella di tanti Paesi che oggi dettano legge al mondo”. Non solo vi sono personaggi e intere pagine di Storia come, per esempio “l’Insorgenza degli anni napoleonici –“la vera epopea popolare degl’italiani”- o le guerre combattute sotto le bandiere imperiali asburgiche […]”. Non si può ignorare tutta questa storia a partire dalle modalità di come è stata fatta l’unità del Paese. Pertanto è utilissimo raccontare per esempio la conquista del Sud manu militare, come hanno fatto diversi libri, tra questi ne segnalo tre in ordine di presentazione: il primo, l’inossidabile “Conquista del Sud”, di Carlo Alianello, romanziere, autore di testi teatrali e storico di alto pregio, cattolico tradizionalista. E l’altro volume è “Storia del brigantaggio dopo l’unità”, di Franco Molfese, edizioni Feltrinelli. Molfese non è uno storico reazionario. Appartiene ad una cultura certamente di sinistra, almeno quando ha scritto questo testo, infatti nell’edizione che ho letto (del 1974) trapela una certa impostazione classista e marxisteggiante del fenomeno. Infine, il testo di Gigi Di Fiore, “Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento”, Rizzoli (2007). Parto dal testo di Alianello, De “La conquista del Sud”, ho letto la 1 edizione pubblicata da Rusconi nel 1972, tra l’altro è uno dei miei primi libri letti non scolastici. Infine ho letto la riedizione riveduta dalla casa editrice Il Cerchio, nel 2010.
Alianello è stato uno dei primi a narrare la vera storia del nostro Risorgimento, che per il Sud ha significato, una conquista militare, peggiorando le condizioni sociali ed economiche e compromettendo fortemente ogni possibile suo sviluppo. Per decenni questa storia è rimasta semiclandestina perché poco rispettosa delle “patrie memorie”. Soltanto negli anni 90, è iniziata una vera e propria revisione storica ad opera di alcuni studiosi e storici nati negli ambienti tradizionalisti.
Gli studi di Alianello assumono grande significato perché lui nonostante quello che scrive non è un nostalgico del legittimismo borbonico, al contrario dei militanti scrittori marxisti, liberali, azionisti a lui contemporanei, che spesso piegavano la verità alle superiori esigenze del Progresso, del Popolo, dell’Idea.
Il testo di Alianello non segue una cronologia degli avvenimenti. In ogni capitolo fornisce precise e lunghe citazioni, memorie di chi ha vissuto quegli anni, dando spazio non solo ai filo borbonici, ma anche a chi stava dall’altra parte. Inizia il suo studio raccontando come è nata la leggenda nera sul Regno delle Due Sicilie. I protagonisti furono due eminenti e illustri politici inglesi, Gladstone e Palmerston che senza aver visitato le galere napoletane, scrivevano che il Regno borbonico, “rappresenta l’incessante, deliberata violazione di ogni diritto(…)la negazione di Dio; la sovversione d’ogni idea morale e sociale eretta a sistema di governo”. Dichiarazioni successivamente smentite dagli stessi interessati. Iniziava così quell’opera, non tanto sotterranea, di congiura da parte dell’Inghilterra contro il Regno di Napoli e Ferdinando II, rappresentato come un orco. A questo proposito scrive il Petruccelli della Gattina, patriota, cospiratore ed esule: “Quando noi agitavamo l’Europa e la incitavamo contro i Borboni di Napoli, avevamo bisogno di personificare la negazione di questa orrida dinastia, avevamo bisogno di presentare ogni mattina ai credenti leggitori d’una Europa libera una vittima vivente, palpitante, visibile, che quell’orco di Ferdinando divorava a ogni pasto”.
Alianello racconta dei furbi e dei traditori del Regno, come il generale Lanza, Marra, “che non si seppero neppure vendersi a giusto prezzo”, ma anche di quei valorosi soldati rimasti fedeli al Re di Napoli e che difesero l’onore a Gaeta. Alianello, è tra i pochi, forse a descrivere la causa principale di questo tradimento in massa, di generali, alti ufficiali, ministri, direttori, preti e vescovi. “Fu una causa culturale, o meglio una cultura degradata e mal digerita posta al servizio dei propri comodi e delle proprie squallide furberie”.
Tra gli studi citati da Alianello c’è quello del cappellano Giuseppe Buttà, “Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta”, così scrive dei “vinti” borbonici: “Affamati, laceri, mietuti ogni giorno dal tifo petecchiale che falciava inesorabile i migliori, penetrando persino nell’antro della casamatta dove si erano ridotti a vivere i sovrani, ammucchiati in ospedali traboccanti di feriti e di agonizzanti, puntualmente bombardati ogni giorno (nonostante le ipocrite offerte del Cialdini)…”. Questi erano i soldati di Franceschiello, come poi li chiamò la stampa liberale, quei cafoncelli che non conoscevano che cosa fossero sinistra e destra, quelli che marciavano al passo: “co’ lu pilo e senza lu pilo…”. Il libro cerca di fare chiarezza senza voler apparire per forza nostalgico o legittimista, “al giorno d’oggi sarebbe perlomeno ridicolo: i Borboni, come i Savoia, non ci interessano; al massimo ci piacerà talvolta confrontare la fine degli uni e degli altri alla luce della nobiltà degli atti di valore”.
Scomparso il Regno di Napoli arriva la liberazione dei vincitori, che si traduce in “L’Italia combatte l’Italia”, “L’Italia subissa l’Italia”, così, “dopo tanti sterminati vanti del nostro primato civile, ora diamo spettacolo d’avidità da pirati, di barbarie esecrande, di cinismo e d’ateismo vestiti di stucchevoli ipocrisie”.
Siamo giunti ai dieci anni (1860-1870) del cosiddetto Brigantaggio, definito da alcuni, una guerra contro il popolo meridionale. Un testo che veramente racconta con ampia documentazione la storia della conquista militare del nostro Sud è il libro di Franco Molfese, «Storia del brigantaggio dopo l’unità», edizioni Feltrinelli.
L’interpretazione classista di Molfese è stata successivamente mitigata, secondo lo storico Francesco Pappalardo, si è distaccato «da quelle “[…] correnti politiche e ideologiche piuttosto confuse di estrema sinistra giovanile che attribuiscono al brigantaggio un contenuto anticapitalistico o, comunque, antiborghese maggiore di quanto ebbe realmente». Anche se ancora oggi per Pappalardo, l’opinione diffusa presso il grande pubblico è che «alla base della rivolta dei contadini è un movente economico-sociale che non è certamente compreso da chi vuole servirsi per fini politici di povera gente vilipesa e oppressa».
Il testo di Molfese si divide in due parti. La 1a (Il grande brigantaggio); la 2a (Attacco e liquidazione del brigantaggio). Già nella premessa, Molfese è convinto che il brigantaggio costituisce una delle pagine più fosche e meno note della storia dell’Italia moderna. Probabilmente la storiografia liberale per non macchiare il mito dell’unanimità dei plebisciti d’annessione ha oscurato del tutto questa pagina di Storia, come del resto ha fatto con quella delle Insorgenze popolari contro gli eserciti napoleonici. Tuttavia Molfese per affrontare questo straordinario lavoro ha manifestato una vera e propria pazienza d’indagine, in un vastissimo materiale mai esplorato fino ad oggi. Del resto Molfese ha potuto attingere a questo materiale essendo vice direttore della biblioteca della Camera dei deputati.
Il libro è corredato di ben 60 pagine di note, in più 22 pagine di bibliografia. Inoltre sono presenti tre appendici, tra queste, l’archivio della commissione d’inchiesta sul brigantaggio nelle provincie meridionali del 1863. Peraltro il testo, come ho potuto constatare, viene spesso citato da altri storici come autorevole fonte.
Lo storico romano raccoglie un gran numero di notizie, di documenti, di nomi tra briganti e ufficiali dell’esercito sardo, di località più o meno importanti e soprattutto di scontri armati in tutti i territori del meridione continentale. Certamente chi intende studiare il fenomeno del brigantaggio non può fare a meno di quest’opera anche se scritta molti anni fa. Infatti la prima edizione è del 1964. Tra l’altro nei vari libri che ho letto sul Risorgimento, sono costanti le citazioni di Franco Molfese.
La rivolta contadina contro i possidenti liberali e rivoluzionari viene legittimata dalla monarchia borbonica e così si diffonde la convinzione della giustezza e della “legalità” dell’opposizione alla rivoluzione unitaria. Pertanto «si consolida in tal modo tra le masse, quel diffuso stato d’animo di resistenza e di avversione al nuovo regime unitario, che costituirà il fondamento psicologico di massa della combattività e della violenza delle successive ‘reazioni’, del conseguente sviluppo della protesta armata e del brigantaggio».
Molfese analizza la questione contadina del Mezzogiorno, facendo leva sulle sue teorie classiste. Infatti i contadini siciliani in uno primo tempo appoggiano Garibaldi, «ma quando i loro obiettivi di classe li avevano spinti ad attaccare la borghesia agraria nei suoi organismi di potere locali, le municipalità, la repressione garibaldina si era riversata su loro». Inoltre, la mancanza di un “partito” borbonico in Sicilia, non ha permesso di sfruttare questa delusione dei contadini ed organizzare la loro reazione.
Tuttavia la reazione dei contadini alla dittatura garibaldina cresce nel continente, si organizzano bande di combattenti del brigantaggio soprattutto per opera dei pontifici. I garibaldini non solo dovettero affrontare la minaccia militare borbonica in Terra di Lavoro e la guerra sociale in Abruzzo e nel Sannio, ma anche un’ondata di sommosse sanguinose che scoppiò un po’ dappertutto nelle altre regioni.
In sostanza al Sud la monarchia sabauda e il governo cavouriano, che non avevano una conoscenza della vera realtà nel Mezzogiorno, affrontavano due avversari: da un lato la dittatura garibaldina, ancora controllata dai democratici e poi la monarchia e l’esercito borbonico.
I moderati erano convinti che occorreva prima ristabilire l’ordine a Napoli e liquidare la “rivoluzione” garibaldina, poi fare i conti con i Borboni. Mentre a Torino i vertici militari si trovarono a risolvere la questione del reclutamento dei componenti dell’esercito garibaldino. C’erano i soccorritori dell’ultima ora, gli “arrivisti” e gli «opportunisti che poco avevano osato ma molto pretendevano raccogliere». Probabilmente i governanti torinesi hanno fatto qualche errore, per esempio licenziando molti “volontari” garibaldini meridionali, che poi diventarono futuri briganti e quindi protagonisti dell’insurrezione contro il nuovo Stato unitario. Altro errore secondo Molfese è stato quello di rifiutare la collaborazione politica e militare dei democratici. Altra questione per il governo di Torino fu quella dell’esercito borbonico: che cosa fare dei prigionieri “napoletani”, arruolarli nell’esercito regio oppure mandarli in prigione nel Borneo, a Macao o in qualche isola sperduta? Molfese ignora o non vuole dare conto del tragico esodo, la deportazione dei poveri napoletani nei lager dei Savoia, così ben descritta da Fulvio Izzo.
C’è stata una certa sottovalutazione dei vari dirigenti del governo a Torino, a partire da Farini, Fanti, Della Rocca e lo stesso Cavour, della sollevazione contadina a direzione reazionaria. Intanto in tutto il Meridione dappertutto si registrano manifestazioni, proteste, scioperi e malcontento. “Le popolazioni delle Due Sicilie devono veramente rallegrarsi del nuovo regime al quale vogliono sottometterle contro le loro tradizioni ed i loro interessi? Non è stato occupato militarmente tutto il regno? Non si fucilano sommariamente numerosi sudditi fedeli al loro re col pretesto che sono dei briganti? Non ci si affanna ad imprigionare a centinaia gli individui che si pronunziano in una maniera qualsiasi contro l’annessione o in favore del loro sovrano legittimo?». Con queste parole nel febbraio del 1861 l’ambasciatore borbonico a Londra denunziava al governo inglese la precarietà della situazione nel Mezzogiorno.
Nell’inverno 1860-61 inizia il grande brigantaggio; bande armate si andavano costituendo un po’ dappertutto, vi accorrevano ex soldati borbonici già congedati o “sbandati”, renitenti ai richiami, disertori, evasi dalle carceri, contadini e montanari ansiosi di libertà, di bottino e di vendetta. Qui inizia il racconto dettagliato di Franco Molfese, che ha potuto consultare archivi di Stato, biblioteche. E’ un susseguirsi di nomi di comandanti briganti e di località, di continui scontri con gli eserciti regolari provenienti dal Nord e con la Guardia nazionale. L’epicentro degli scontri è stata la Basilicata nei boschi del Volture e di Lagopesole, di Rionero, dove primeggiava Carmine Crocco con la sua nutrita banda ed il suo luogotenente Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco-Nanco.
Il Molfese, nell’appendice terza del suo libro, pubblica un elenco delle bande brigantesche attive fra il 1861 e il 1870 e ne individua ben 388 (trecentottantaotto), dalle piccole, composte di pochi individui (5-15), fino alle grandi, che raggiunsero e superarono talvolta i 100 uomini, con punte fino a 300-400. Molti sono nomi noti altri meno. Fra le grandi bande, Molfese cita quelle di Giovanni Piccioni, Luigi Alonzi (Chiavone), Tristany nella Terra di Lavoro, e Stato Pontificio; di Cipriano e Giona La Gala, Agostino Sacchitiello nell’Irpinia e Salernitano; di Carmine Donatelli (Crocco), Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), Giuseppe Caruso in Basilicata; Sergente Romano in Terra di Bari e Terra d’Otranto.
Scrive Molfese: «Le forze dell’esercito e le guardie nazionali sostennero il peso della lotta con non poca difficoltà. Il nemico agiva di sorpresa, mobilissimo, si ritirava fulmineamente dopo aver colpito, tendeva agguati continui, si batteva soltanto in condizioni favorevoli di tempo, di luogo e di forze. Le continue perlustrazioni non davano risultati apprezzabili; le piccole bande sfuggivano ad ogni rete: le bande più grosse, non appena strette davvicino, si frazionavano e si disperdevano. Gli scontri […] si riducevano in genere ad uno stillicidio di scaramucce con perdite esigue da ambedue le parti, ma che comportavano un grande logorio di forze fisiche […]».
Oltre ai briganti, bisognava colpire «a fondo la reazione clericale-borbonica mediante misure poliziesche, quali l’arresto e l’espulsione dal regno di personalità del clero, della nobiltà legittimista e dell’esercito borbonico, tra le quali l’arcivescovo di Napoli Riario Sforza, l’arcivescovo di Salerno e il vescovo di Teramo[…]». In questo periodo ben 71 sedi vescovili risultano vacanti.
Il governo Ricasoli continua a nascondere o perlomeno di minimizzare i fatti del brigantaggio non solo nel Paese ma anche all’estero. Si pensi che il rapporto Massari, ma anche quello di La Marmora sono stati segretati, almeno il popolo non ne era a conoscenza. Intanto si nega qualsiasi carattere politico all’azione del brigantaggio, in quanto svolto da “volgari assassini”, che agiscono di propria iniziativa, senza guide legittimiste o di ufficiali borbonici.
Nell’estate del 1861 il governo borbonico in esilio, decise di dare una direzione militare e un forte indirizzo legittimista alla spontanea rivolta contadina. Viene incaricato il generale spagnolo Josè Borjes, di coordinare le varie bande per cercare di farle diventare un esercito. C’era quasi riuscito ad imporre le sue idee ai capibande, a Crocco. Con Borjes al comando i briganti avevano ottenuto delle significative vittorie. Borjes non raggiunge il suo scopo: far valere la sua strategia militare a Crocco e compagni, ben presto ha dovuto ritirarsi e ritornare a Roma. Sul confine con il territorio pontificio fu catturato l’8 dicembre 1861 e fucilato a Tagliacozzo.
Nella seconda parte Molfese descrive la repressione dell’esercito sardo-piemontese che si avvale della Legge Pica. L’esercito è il protagonista assoluto, il libro descrive il carattere e l’arbitrarietà della repressione dello stato d’assedio dei vari generali nei confronti dei “cafoni” meridionali. E poi naturalmente le lunghe lotte in Parlamento a Torino, le inchieste, contro il silenzio sulla repressione dei territori meridionali. Intanto cambiano i governi, ma la linea è sempre la stessa, Destra e Sinistra, tutti d’accordo nel distruggere radicalmente il brigantaggio e mettere a ferro e fuoco il Sud. E’ impressionante il numero dei soldati impiegati per reprimere il cosiddetto brigantaggio, quasi 120.000 soldati, ciò significa secondo Molfese, che il brigantaggio in quegli anni sia stato un fenomeno di massa, che andava ben al di là dei briganti alla macchia.
Molfese pubblica delle tabelle sui denunciati, sui condannati, sui deceduti in carcere, sugli assolti. Riguardanti il periodo 1863-1865. Un quadro impressionante dove si rileva che i colpiti sono soprattutto i contadini ma anche tutte le altre classi sociali. Si intendeva spargere un “salutare terrore” tra i briganti ed i loro sostenitori.
Il numero preciso degli arrestati e dei fucilati non lo si saprà mai, ma furono tantissimi. Un vero massacro, un olocausto del Sud. Nelle conclusioni lo storico romano si chiede se tutto questo si poteva evitare. A questo proposito propongo un’articolata risposta di Francesco Pappalardo, storico cattolico conservatore, nonché studioso del brigantaggio. «Permane tra gli storici un filone «unitario» che considera ancora i briganti alla stregua di delinquenti. E un filone marxista duro a morire che ripresenta il brigante come il cafone che prende le armi perché oppresso socialmente. Eppure anche uno storico come Giuseppe Galasso, che non è certamente filo-borbonico, insiste molto sulla componente dinastica: se nel 1799 ci fu una controrivoluzione per difendere la religione, dal 1860 ce ne fu una per difendere il regno. Certo libri come Terroni di Pino Aprile non aiutano svolgere a un ragionamento articolato: si semplifica e si banalizza troppo etichettando il Nord come predone del Sud. Non è che i piemontesi fossero cattivi. C’è stato un ceto dirigente che ha imposto uno Stato unitario anti-cattolico, non rispettoso delle altre entità statali della penisola, diverse per storia, costumi e cultura. La questione meridionale nacque allora, così pure quella cattolica e quella federale. È un processo storico che merita di essere riconsiderato. Ci sono anche lodevoli iniziative culturali, per esempio a Gaeta e in Basilicata. Ma attenzione a fare del folklore».
Il terzo studio da cui traggo informazioni sul cosiddetto brigantaggio o conquista militare del Sud è quello di Gigi Di Fiore, “Controstoria dell’unità d’Italia”. “E’ una rappresentazione del Risorgimento diversa dai ricordi scolastici”, scrive Di Fiore nella prefazione. E’ un tentativo per capire meglio, senza intenti agiografici, ricostruire senza miti, come siamo diventati uniti. Cercando di liberarci di quelle ricostruzioni deamicisiane di un tempo. E’ importante spogliarsi della mitologia, della sacralità del Risorgimento.
Per decenni nessuno si è chiesto il motivo della guerra al Sud: “perché fu tanto difficile, e solo con l’ausilio di cannoni e fucili, domare la ribellione contadina nelle regioni del Mezzogiorno subito dopo l’annessione, oppure perchè si moltiplicarono, sempre in quelle aree, gli ‘stati d’assedio’ e furono necessari leggi speciali per conservare l’integrità nazionale”. Fatta eccezione per i conflitti con l’Austria, “la rivoluzione ottocentesca nella penisola fu in gran parte una guerra civile tra italiani, soprattutto al Sud”. Eppure ancora in molti considerano il Risorgimento, una pagina trasparente della storia nazionale, “una specie di bella favoletta, con gli eroi tutti da una parte e i cattivi dall’altra”. Insomma secondo Di Fiore, con un po’ di pazienza e di documentazione seria, senza pregiudizi e con serenità, si può “arrivare a riempire un “Libro nero” di episodi, ambiguità, furbizie che contribuirono a realizzare l’unità d’Italia”.
Il tema della guerra del nuovo Regno contro i contadini del Sud viene affrontato in du capitoli il 6° e il 7°. (“La guerra contadina” e “Fucilateli tutti”).
Le prime rivolte si ebbero in Abruzzo quando ancora Francesco II resisteva a Gaeta. C’era confusione e incertezza, sindaci liberali si avvicendavano a sindaci borbonici.
Ben presto i generali Fanti e poi Cialdini si affidarono ai Tribunali militari per giudicare i cosiddetti briganti, i contadini in rivolta. Anche Di Fiore racconta episodi di rastrellamenti, di vere battaglie contro i briganti. Il generale Ferdinando Pinelli entrando a L’Aquila, diffuse un bando, che indignò persino i suoi superiori: riferendosi ai contadini in lotta, “Un branco di quelle progenie di ladroni ancora si annida tra i monti, correte a snidarli e siate inesorabili come il destino. Contro i nemici tali la pietà è delitto”. Eppure Vittorio Emanuele aveva salutato gli abitanti delle Due Sicilie affermando conciliante: “Non vengo a imporvi la mia volontà, ma a ripristinare la vostra”. Le autorità piemontesi capirono che conquistare i territori dell’ex regno Borbonico non sarebbe stato facile come in Toscana o nei ducati. La “normalizzazione” si sarebbe rivelata molto difficile. Il generale comandante dell’esercito nel Mezzogiorno della Rocca da Napoli scriveva: “La reazione alzava la testa in molti punti dell’ex regno; le bande armate che infestavano le campagne s’ingrossavano di tutti i malcontenti e dei disoccupati […]”.. Troppi morti fucilati, troppi “ribelli”, che figura faceva il nuovo Stato di fronte all’Europa.
All’alba dell’unità d’Italia il Mezzogiorno si rivelava una vera e propria polveriera. L’epicentro della rivolta divenne la Lucania dove Carmine Crocco riuscì a riunire sotto il suo comando fino a 1000 uomini. Le ribellioni aumentavano. Nel 1861, le campagne meridionali divennero un vulcano in ebollizione. Anche Di Fiore conta le varie bande presenti in tutte le regioni. Ognuno di questi briganti aveva un motivo per darsi alla macchia. Ufficialmente l’esercito italiano parlava di repressione poliziesca, “ma il numero dei coinvolti sembrava più da conflitto civile”, scrive Di Fiore. Non starò qui a raccontare l’ascesa di Crocco e la sua banda con le significative vittorie nei territori che conosceva bene. I massacri da ambo le parti, erano all’ordine del giorno. Ma soprattutto l’esercito venuto dal Nord si è reso protagonista di veri e propri eccidi.”La repressione senza alcuna spiegazione, la distanza culturale tra gli ufficiali piemontesi e la gente del Sud contribuirono a trasformare quei militari venuti dal Nord in estranei. Nessuno riusciva a sentirli come soldati del proprio Stato in cui riconoscersi. Per tutti erano conquistatori che volevano imporre usanze e culture lontane. ‘Piemontisi’. Molti ufficiali parlavano francese e furono costretti ad avvalersi di interpreti per parlare con le popolazioni locali di cui non comprendevano lo sconosciuto dialetto”. Se questa era la situazione molti nobili da tutta Europa, sposavano la causa borbonica e mettevano la propria spada ai piedi della regina Maria Sofia, pronti a combattere per farle riavere il trono. Uno di questi il famoso spagnolo Josè Borjes, tentò in tutti i modi di far diventare la resistenza armata dei contadini lucani una sorta di esercito legittimista borbonico, ma Crocco alla fine rimaneva sempre e soltanto un brigante, peraltro sanguinario e assassino.
Di Fiore ripercorre tutti i vari passaggi di resistenza armata delle varie bande che hanno contribuito a combattere l’esercito invasore del nuovo regno d’Italia. La ricostruzione storica di questi avvenimenti non sempre si è mantenuta nella verità oggettiva, spesso finzioni, propaganda contribuivano ad occultarla, soprattutto da parte di chi stava reprimendo. Lo storico napoletano sostiene che nel Sud c’era in atto una vera guerra, “e i briganti erano più motivati dei militari che dovevano fronteggiarli […]”. Anche se per loro c’era una vita abbastanza poco tranquilla, il testo descrive bene le loro condizioni molto precarie. Il binomio ricorrente in questa guerra contadina era cafoni e galantuomini.
L’unica ricetta individuata dai comandanti militari a Napoli per controllare l’ordine pubblico era quella di militarizzare il territorio. Alla fine ci pensò Cialdini a regolarizzare tutto, vuoi con il bastone che con la carota. Creare il deserto intorno alle bande, isolarle. Tra i comandanti più spietati c’era il maggiore Pietro Fumel che prometteva 100 lire a chi consegnava un brigante vivo o morto. Due erano le alternativa di quella guerra spietata: a favore o contro i briganti. Per Fumel erano complici dei briganti anche gli “indifferenti”, in questi casi, “la neutralità è un crimine”. Al Sud era in atto uno scontro tra culture e storie diverse. Il cafone, il contadino veniva considerato sempre un potenziale nemico. La guerra contro i contadini veniva applaudita anche dai liberali meridionali come Luigi Settembrini. Anche i deputati meridionali esuli in Piemonte da diversi anni, facevano a gara per giustificare ogni azione del governo di Torino. E se c’era qualcuno che osava criticare “il modo in cui si stava costruendo l’Italia veniva subito accusato di essere antiunitario o, peggio, di avere simpatie borboniche”. Ne più né meno quello che accade oggi. Di Fiore elenca i numeri impietosi di questa vera e propria guerra civile. Il governo sabaudo in questi dieci anni di guerra, impiegò ben 53 tra generali e colonnelli.
Il testo di Di Fiore accenna alla funzione propagandistica della fotografia in questa lotta spietata contro i briganti. Utilizzate anche dallo psichiatra Cesare Lombroso e dal sociologo Alfredo Niceforo, che stavano lavorando per dimostrare che i meridionali, in particolare i briganti, erano una razza inferiore. Inoltre tutto il Sud era arretrato, ecco la semplificazione che portava alla condanna genetica della rivolta contadina. La ribellione veniva spiegata in un unico modo: ”l’inferiorità culturale di quella gente che non riusciva ad apprezzare la civiltà e il progresso che le erano stati offerti”. Pertanto, gli studi, le fotografie, ebbero l’obiettivo di dimostrare quella teoria: arretratezza, ignoranza, violenza innata. Sorvolo la questione del brigantaggio siciliano e di quello calabrese. Tuttavia si è combattuta una “sporca guerra”, assomigliante a quella del selvaggio West americano, le vicende ne avevano tutte le caratteristiche: inseguimenti con i cavalli, assalti a treni e convogli e poi tutti gli orrori delle guerre senza regole, come gli eccidi di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi divenuti protagonisti di questa triste guerra. Paesi che hanno subito le rappresaglie dell’esercito di Torino per vendicare i 41 militari uccisi da quelle popolazioni. Mi fermo, conoscere la Storia, studiarla è un sacrificio, bisogna avere pazienza e documentarsi con libri seri come quelli che ho presentato in questo mio studio. Peraltro leggere è un “lavoro” particolare che dovrebbe essere maggiormente valorizzato a partire dalla scuola.
DOMENICO BONVEGNA
dbonvegna1@gmail.com