La lettera di Marina Berlusconi: “Papà perseguitato anche dopo la morte. Gli assurdi teoremi di certi pm intoccabili“…
Caro direttore,
ma la guerra dei trent’anni non doveva finire con Silvio Berlusconi? Dopo di lui, il tema giustizia non doveva tornare nei binari della normalità? No, purtroppo non è così. Ha aspettato giusto un mese dalla sua scomparsa, la Procura di Firenze, per riprendere imperterrita la caccia a Berlusconi, con l’accusa più delirante, quella di mafiosità. Mentre nel Paese il conflitto tra magistratura e politica è più vivo e violento che mai.
Siamo incastrati in un gioco assurdo, che ci costringe a un eterno ritorno alla casella di partenza. È una sensazione sconfortante, perché sembra che ogni ipotesi di riforma diventi motivo di scontro frontale, a prescindere dai suoi contenuti.
Sia ben chiaro, spetta solo a politica e istituzioni, nel rispetto del dettato costituzionale, affrontare problemi gravi come questo. Sento però la necessità di portare una testimonianza, e una denuncia, innanzitutto come figlia: la persecuzione di cui mio padre è stato vittima, e che non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa, credo contenga in sé molte delle patologie e delle aberrazioni da cui la nostra giustizia è afflitta. È una storia che vede una sia pur piccola parte della magistratura trasformarsi in casta intoccabile e soggetto politico, teso solo a infangare gli avversari, veri o presunti. È così che certi pubblici ministeri invertono totalmente il percorso che la ricerca della verità dovrebbe seguire. Partono da un teorema, per quanto strampalato, e a questo adattano la realtà dei fatti, anche stravolgendola, per dimostrare la fondatezza del teorema stesso. Che poi alla fine questo non trovi il minimo riscontro importa poco. Perché nel frattempo gli organi di informazione amici avranno diligentemente pubblicato le carte dell’accusa, anche quelle in teoria segrete, facendo di tutto per presentarne le ipotesi come fossero verità assolute. L’avviso di garanzia serve così solo a garantire che l’indagato venga subito messo alla gogna: seguiranno le canoniche intercettazioni, anche le più lontane dal tema dell’inchiesta. Ma tutto serve a costruire la condanna mediatica, quella che sta loro davvero a cuore, prima ancora che il teorema dell’accusa venga vagliato da un giudice terzo. Un meccanismo diabolico, questa tenaglia pm-giornalisti complici, che rovina la vita ai diretti interessati ma anche condiziona, e nel caso di mio padre si è visto quanto, la vita democratica del Paese, avvelena il clima, calpesta i più sacri principi costituzionali. Eppure, e lo dico con tutta l’amarezza di cui sono capace, è un meccanismo diabolicamente efficace. Una condanna a un «fine pena mai» anche senza una prova, anche senza una sentenza, anche dopo la vita stessa.
La scomparsa di mio padre non ha mutato nulla. Dopo oltre vent’anni di inchieste, dopo una mezza dozzina di indagini chiuse su richiesta degli stessi pubblici ministeri perché non c’era – non poteva esserci – alcun elemento di prova, e subito riaperte in modo da dilatare strumentalmente qualsiasi termine di scadenza, dopo che i conti della Fininvest sono stati passati per anni al setaccio senza risultato, ci sono ancora pm e giornalisti che insistono nella tesi, assurda, illogica, molto più che infamante, secondo cui mio padre sarebbe il mandante delle stragi mafiose del 1993-94. È qualcosa di talmente enorme che fatico perfino a scriverlo. Ma davvero qualcuno può credere che Silvio Berlusconi abbia ordinato a Cosa Nostra di scatenare morte e distruzione per agevolare la sua discesa in campo del gennaio 1994? Ed è credibile, poi, che abbia costruito una delle principali imprese del Paese utilizzando capitali mafiosi?
Io conosco molto bene l’uomo che era mio padre, il suo orrore per ogni forma di violenza, la sua profonda considerazione per ogni singola persona, nessuno sa meglio di me come la capacità di amare e il desiderio di essere amato fossero l’essenza stessa della sua vita. Ma se qualcuno non si accontenta del buon senso o di quel che sostiene una figlia, mi spieghi perché, dopo oltre un quarto di secolo in cui decine di pm hanno dedicato le loro giornate a mio padre, non è emerso nulla, nulla di nulla. Invece, non basterebbe una pagina di questo giornale, caro direttore, per elencare le leggi contro la criminalità organizzata varate dai governi Berlusconi. Contro Cosa Nostra nessun altro esecutivo ha mai fatto tanto. Ma tutto questo non basta. La lettera scarlatta giudiziaria che marchia l’avversario resta indelebile, gli sopravvive. E il nuovo obiettivo è chiaro: la damnatio memoriae.
No, purtroppo la guerra dei trent’anni non è finita con Silvio Berlusconi. E non riguarda di certo soltanto lui. Perché un Paese in cui la giustizia non funziona è un Paese che non può funzionare. Non m’illudo che, dopo tanti guasti, una riforma basti a restituirci alla piena civiltà giuridica. Ma penso, e spero, che chi ha davvero il senso dello Stato debba fare qualche passo importante. Non dobbiamo, non possiamo rassegnarci. Abbiamo diritto a una giustizia che, come si legge nelle aule di tribunale, sia «uguale per tutti». Per tutti, senza che siano certe Procure a decidere chi sì e chi no.
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