Non possono celebrare e non possono neanche augurare la Pasqua ai cittadini le persone che sono volgari nel loro linguaggio. Io auguro veramente… Sono fortemente amareggiato, non seccato ma amareggiato sì, perché il popolo di Messina non merita questo tipo di insulti…
di ANDREA FILLORAMO
Sono rimasto bene impressionato dell’omelia dell’Arcivescovo di Messina, Mons. Giovanni Accolla, fatta nella Veglia Pasquale, in cui egli ha dimostrato grande sensibilità, paternità e affetto nei confronti del cittadini messinesi, che, a suo parere, vengono colpiti dalle “mitragliate” di volgarità del loro primo cittadino (fatte con un megafono installato su una vettura che percorre le vie comunali) sindaco che egli, però, non nomina ma che dal contesto appare chiaro che a lui si riferisca.
Parlando in modo particolare delle famiglie in cui ci sono bambini e anziani, egli dice: «Cercate… cerchiamo tutti quanti di avere tanta attenzione per questi soggetti, per questi nostri fratelli che sono i più fragili: vanno tutelati con la carezza e l’attenzione di chi sa usare linguaggi appropriati, non sprovveduti e neanche volgari. In città se ne sentono parecchi. È una vergogna. È una vergogna! Dovrebbero pentirsi pubblicamente chi va veicolando linguaggio turpe. Non possono celebrare e non possono neanche augurare la Pasqua ai cittadini le persone che sono volgari nel loro linguaggio. Io auguro veramente…Sono fortemente amareggiato, non seccato ma amareggiato sì, perché il popolo di Messina non merita questo tipo di insulti».
È questa sicuramente la nuova pastorale di Papa Francesco molto attenta ai comportamenti nei confronti degli altri particolarmente dei più deboli e dei più indifesi, alla quale l’Arcivescovo Accolla dà il suo importante contributo.
Credo che, un sindaco siffatto, che magari inconsapevolmente fa andare a braccetto l’espressività con il libero sfogo del suo carattere, colpisca gli ignari concittadini, conseguentemente debba essere eticamente sanzionato dal vescovo. Cosa che ha fatto l’arcivescovo di Messina, essendo di esempio a molti vescovi che non si vogliono “sporcare le mani” persino nell’intervenire sugli uomini politici corrotti.
Sappiamo quali sono gli effetti del dilagare della sopraffazione verbale, fatta anche di innocui intercalari e di moltiplicatori di espressività, alla quale assistiamo anche nella televisione, e che è purtroppo autorizzata dalla “communis opinio”, sempre più disposta a riconoscere le parole e le locuzioni triviali, con la complicità di molte sentenze della magistratura che con la scusa di una loro generalizzata diffusione, hanno di fatto depenalizzato tante offese indirizzate al nostro prossimo.
È inaccettabile che ci sia qualcuno, specie se ha incarichi pubblici che sia fautore di tale andazzo. Non mi meraviglio, pensando che Vito Tartamella, autore di un saggio più volte ristampato (“Parolacce. Perché le diciamo, che cosa significano, quali effetti hanno, Ed. Rizzoli”), si è divertito a contare i titoli dei libri pubblicati in Italia fra il 2000 e il 2009 contenenti parolacce. Sarebbero appena 231 su 560.000 all’incirca, ma rispetto agli anni Sessanta, secondo i calcoli di Tartamella, i volumi dai titoli volgari sono aumentati di 13 volte negli anni Novanta e di 29 volte nei primi dieci del Terzo Millennio.
E fa un certo effetto, ultimamente, vedere libri del genere in vetrina o in bella mostra nelle librerie. Fra i motivi della volgarità imperante: l’escalation di una violenza gratuita e inconsapevole anche quando non appare tale; la reazione al politicamente corretto e al suo perbenismo radical-chic, spesso scambiata per un sospirato ritorno alla libertà d’eloquio (il politically correct, con la sua continua rincorsa all’ingentilimento espressivo, di eufemismo in eufemismo, innescherebbe la reazione contraria di chi non ne può più di museruole o bavagli); la televisione “urlata” di talk show e reality show o un certo “ sgarbismo” che conta molti aderenti.