Da poco ho finito di leggere un testo enciclopedico sulla storia del Sacro Romano Impero. Un tema che potrebbe apparire esotico oppure intellettualistico. Mi riferisco alla monumentale opera di James Bryce (1838-1922) storico e uomo politico inglese, “Il Sacro Romano Impero”, pubblicato dalla coraggiosa casa editrice D’Ettoris di Crotone nel 2017 (30,90 e.). Si tratta di un corposo libro di quasi seicento pagine comprese in XXIV capitoli.
Presentato e curato da Paolo Mazzeranghi; il testo fa parte della collana che era diretta dal compianto Giovanni Cantoni, “Magna Europa. Panorami e voci”. Il titolo dell’opera originale “The Holy Roman Empire”, (Macmillian and Co, Londra 1907) Un testo scientifico di alta qualità, ben documentato con continue note e meticolose citazioni, in riferimento ad altri testi. Lo storico inglese sgrana in continuazione nomi di papi, imperatori, re e vari condottieri a getto continuo, che si fa una certa fatica a seguirlo. Non per nulla dopo la prefazione alla IV edizione, per seguirlo meglio il suo studio, presenta una Tavola Cronologica degli Imperatori e dei Papi di ben 50 pagine.
Premetto subito che è un testo che si fa fatica a sintetizzare, bisogna leggerlo con molta pazienza senza scoraggiarsi.
L’Holy Roman Empire di James Bryce conobbe subito un grande successo presso il pubblico colto inglese e anche presso gli storiografi di professione. Pubblicato nel 1862 per la prima volta, poi ampliato nel 1864. L’Autore, in pratica ha lavorato molto al libro, rivedendolo, ampliandolo nella narrativa e nell’apparato di note, sino all’ultima edizione inglese del 1907. James Bryce appartiene a quella eletta schiera di grandi storici ottocenteschi (pensiamo al Mommsen e al Droysen, al Guizot e al Taine) capaci di unire all’immensa erudizione una trascinante agilità e scioltezza di stile che spesso s’innalza a livelli di composta e classica solennità.
L’Autore nel raccontare la storia del Sacro Romano Impero cerca di far rivivere le idee portanti della costruzione imperiale medievale (universalismo cristiano; romanità; regalità; teorie guelfe e ghibelline dei due magna luminaria ecc.)
Nella sua storia millenaria il Sacro Romano Impero ha costituito per l’uomo occidentale un richiamo ineludibile. Il sopravvivere di questa istituzione politica per tanti lunghi anni, apparentemente anacronistica, testimonia quanto sia stata radicata la speranza per gli europei avere un mondo pacificato e unito nella diversità. Il Sacro Romano impero a volte è riuscito in questo intento così difficile, ma spesso doveva fare i conti con i nobili, con i re, ma anche con il potere spirituale della Chiesa.
“Il lettore italiano apprezzerà – scrive Mazzeranghi – innanzitutto una storia in cui la presenza dell’Italia non è marginale ma fondamentale: se in Europa infatti, non vi è luogo di cui non si possa dire che ivi è passata la storia, vi sono luoghi in cui la storia si è caricata di un peso specifico straordinariamente elevato e ha condizionato in modo essenziale i destini dell’intero subcontinente”.
Bryce lascia spazio alla composizione di grandi quadri, delle varie epoche prese in considerazione, sempre mantenendo il quadro complessivo della storia. Lo stesso Bryce indica lo scopo del libro, che non è quella di una mera narrazione storica, “[…] quanto descrivere il Sacro Impero stesso come un’istituzione o un sistema, il frutto stupendo di un corpo di credenze e di tradizioni che è sparito dal mondo quasi interamente”. Per comprendere meglio l’importante opera Mazzeranghi ricorda che Bryce è un inglese, o meglio irlandese di Belfast, liberale per filosofia politica e per militanza, protestante di un protestantesimo non-conformista, presbiteriano scozzese. Il suo giro mentale è marcatamente filogermanico e si nota abbondantemente leggendo il libro. Poi c’è in lui anche un giudizio fortemente positivo del Risorgimento italiano e dei suoi protagonisti. L’autore pone problemi reali e non è corretto secondo Mazzeranghi rubricarlo come pregiudizio anticattolico, o filo germanico, antiasburgico.
L’impero si fonda sul dovere di unificare, pacificare e dare ordine al mondo cristiano, difendendolo contemporaneamente dai nemici esterni. Questo comporta avere un rapporto con il potere spirituale del Papato, e poi con i singoli re e comunità, che gli appartengono, o che riconoscono il ruolo eminente e poi il rapporto con chi si pone fuori della comunità cristiana. Sostanzialmente Mazzeranghi, evidenzia che, “le forme politiche attraverso cui realizzare l’unità dei popoli cristiani non possono, per gli uomini del tempo, che essere quelle dell’immenso precedente costituito dall’impero romano, che, con tutti i suoi limiti, ha assolto al duplice ruolo di assicurare la pace e l’ordine all’interno e la difesa dall’esterno. Certo c’era sempre quel rapporto complicato tra il potere temporale e quello spirituale, “la difficoltà pratica di stabilire ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio”. Non sempre c’era un rapporto sereno tra l’impero e le diverse nazioni e poi con i gruppi umani viventi all’interno delle nazioni. Bryce evidenzia la sua passione politica per gli aspetti delle piccole comunità umane che devono coniugarsi con una visione dell’impero, all’ombra del quale i piccoli trovano protezione. L’idea imperiale è sempre presente nell’autore del libro, anche se a volte contrasta con le particolarità nazionali. Infatti, sottolinea Mazzeranghi che “l’idea imperiale viene svuotata dall’ideologia degli Stati nazionali, il potere politico-militare dell’impero si trova spesso soccombente: svuotato della sostanza e della possibilità di adempiere le sue funzioni, l’impero finisce con i secoli per essere percepito dai popoli come antiquato e inutile”. Esiste certamente una certa debolezza nell’impero, come quella del meccanismo elettorale, o il comando politico sostanzialmente ancora feudale. E ci sono storici che hanno mosso all’impero delle forti critiche come quella di aver tradito l’idea imperiale, trasformandosi in un sovrastato marcatamente tedesco con mire imperialiste. Oppure la critica che fa Bryce agli Asburgo, quella “di aver trasformato l’impero non in uno Stato nazionale, ma in uno Stato dinastico i cui interessi familiari hanno largamente prevalso sull’interesse dei popoli dominati […]”.
Tuttavia il testo di Bryce si chiude con una testimonianza importante: l’impero non è stata “una bella favola non avverata, ma uno stato di necessità permanente nella vita associata dei popoli”. Sempre però tenendo conto del suo “impianto metafisico che lo legittima e ne mantiene saldo l’indirizzo al bene comune”. E’ desiderabile e possibile oggi, si può realizzare qualcosa di simile come lo è stato l’impero sovranazionale? Non è il compito della presente opera indicarlo, “ma non è una domanda che sia sconveniente porsi all’inizio di un millennio”, scrive il curatore di questo testo.
Ho accennato all’inizio di questo mio intervento alle difficoltà di sintesi del testo, “navigando” in internet mi sono imbattuto in una recensione di uno studioso Lorenzo Vittorio Petrosillo, su un sito che non conoscevo, “Il Pensiero storico. Rivista internazionale di Storia delle idee”. Utilizzerò in parte questo studio ben fatto. Studiare il Sacro romano impero, significa prendere in esame ben millecinquecento anni. The Holy Roman Empire copre un arco temporale da far tremare i polsi a ogni storico per la dilatazione cronologica. Dopo i capitoli dedicati all’Impero romano della tarda antichità e all’innesto, su quel mondo, del cristianesimo («tanto il cristianesimo quanto la civiltà vennero a coincidere con l’Impero romano. Essere romano era essere cristiano, e presto questa idea si invertì: essere cristiano era essere romano»). Bryce entra nel vivo del suo argomento col IV capitolo («la restaurazione dell’Impero in Occidente», e con Carlomagno e i suoi successori. Il grave tema della «teoria dell’Impero medievale» è trattato più dettagliatamente nel capitolo VII: una trentina di pagine dense di definizioni concettuali che ruotano attorno alla dottrina giudaico–cristiana dell’unità di Dio, che «imponeva ora l’unità dell’uomo» in un unico «Sacro Impero designato a riunire tutti gli uomini nel suo seno e a opporsi al multiforme politeismo del mondo più antico»; «un solo grande movimento universale verso l’unità» cristiana e romana che rese «sinonimi» le due denominazioni.
La Notte di Natale dell’800.
Nel testo di Bryce obbligatoriamente campeggia la primaria figura di Carlo Magno, il IV e il V capitolo sono dedicati al popolo franco e alla politica di Carlo. “Il capo spirituale della Cristianità [non] poteva fare a meno del capo temporale; senza l’impero romano non vi poteva essere una Chiesa Romana[…]”. L’incoronazione di Carlo non è solo l’evento centrale del Medioevo, “ma anche uno di quei pochissimi eventi di cui, presi singolarmente, si può dire che, se non fossero accaduti, la storia del mondo sarebbe stata differente”.
Per quanto riguarda la descrizione dell’evento ci sono drammatiche divergenze nei dettagli della procedura/cerimonia al punto da offrire spunti per contrastanti e opposte ricostruzioni ideologico–giuridiche che sarebbero state elaborate nei cinque secoli successivi. Il virus della discordia tra i due universalismi del medioevo occidentale aleggia già nella Basilica di san Pietro, tra quei prìncipi, ecclesiastici e i dignitari che al lume di mille candele e al crepuscolo di una giornata santa e memorabile stavano celebrando il battesimo di pace della rinnovata res publica christiana. Nei decenni e secoli successivi il partito dei curiali, volgendosi al gesto di Papa Leone III, trasse la conclusione che il Pontefice, Vicario di Cristo, possedeva l’inalienabile diritto di porre la corona imperiale sul capo di chicchessia (purché cristiano ortodosso e di status libero) e che la suprema carica dell’Augusto cristiano esistesse in funzione e al servizio della Cattedra di Pietro. Poi c’è il partito dei ghibellini, all’opposto, volle vedere nell’incoronazione di Carlo un atto dovuto in virtù del ruolo, da questi già acquisito per diritto di conquista e decreto divino, di signore di Roma e della cristianità: il Pontefice nella notte di Natale dell’800 si sarebbe limitato a ratificare una designazione imperiale che si imponeva già nei fatti e da sé.
C’era anche un terzo partito, un minus habens nella lunga storia delle controversie tra papato e Impero, quello che Bryce definisce «il partito patriottico fra i Romani», si illuse invece di cogliere nella notte del fatidico Natale l’eco della maestà romana: il Senatus Populusque Romanus fa da sfondo ai due protagonisti ma non nel ruolo di comprimario. L’imperatore, soprattutto, era ricondotto dall’ideologia di questo partito alle più modeste proporzioni di primo magistrato di una res publica la cui sovranità risiedeva nel popolo ed era stata dal popolo delegata, ma solo temporaneamente.
Agli occhi del giurista Bryce le tre distinte teorie sono «tutte plausibili, tutte in qualche misura fuorvianti». Plausibili perché ognuna di esse contiene elementi di verità, ma fuorvianti perché tutte, nella loro reciproca contraddittorietà, non fanno che confermare la sostanziale extra–legalità dell’incoronazione in quanto «Carlo non conquistò, né il Papa diede, né il popolo elesse». Al pontefice Leone III, a Carlo Rex Francorum e al Senato e popolo di Roma va infatti aggiunto un convitato di pietra, assente come persona fisica alla cerimonia di quel Natale romano ma incombente con tutto il peso della sua plurisecolare linea di ininterrotta legittimazione di titolo: l’Imperatore romano d’Oriente. Era lui l’unico, vero, legittimo successore di Cesare e Augusto, di Traiano e Costantino? Tuttavia, Formalmente mai – se non, forse e con mille limiti, nel suo tardo tramonto – l’Imperatore d’Oriente riconobbe la legalità e legittimità del suo omonimo d’Occidente. Ed egualmente l’Imperatore d’Occidente col suo omonimo di Costantinopoli.
L’Imperatore Ottone III.
Ma le pagine di più vibrante partecipazione sono quelle dedicate al giovane imperatore Ottone III: sangue teutonico (e per metà bizantino) ma schietta esaltazione romana, sintesi vivente di due mondi che cercavano di capirsi e di completarsi sotto l’egida della Vera Fede intensamente vissuta. Egli, «spirito giovane e visionario» imbevuto di idee antiche e soggiogato dal misticismo della Roma cristiana (ansiosamente ma invano cercata , fu l’imperatore che forse più di chiunque altro seppe vivere “dall’interno” la dimensione romana e latina della sua carica: l’imperatore idealista che «dimenticò il presente per vivere nella luce dell’antico ordine».
Bryce conduce il lettore lungo il percorso tortuoso di una idea di pace e universalismo che ambiva a essere la base di una società altamente organizzata: l’idea di un solo popolo cristiano, i cui membri sono tutti uguali agli occhi di Dio, con un imperatore superiore ai grandi della terra perché titolato di un potere non di “quantità” maggiore ma di “qualità” differente; un imperatore superiore a re, prìncipi e signori feudali in quanto solennemente investito di una funzione universale e sacrale di servizio e di difesa. L’Autore, pur improntando il suo studio a severi criteri di obiettività scientifica, non è affatto refrattario a esprimere giudizi e interpretazioni su idee, eventi e personaggi, senza mai perdere di vista il dato reale. Secondo la migliore scuola del positivismo storiografico. James Bryce, è uno studioso anomalo poiché non si identificò mai nella classica figura dell’erudito da tavolino. Bryce parlava fluentemente francese, italiano, tedesco (si dice che con la Regina Vittoria, che lo teneva in gran conto, discorresse in tedesco). Conosceva benissimo sia il greco che il latino, qualità comune al tempo fra i letterati e gli intellettuali.
Dalla lettura del testo, Bryce, anche se non lo scrive esplicitamente, prende posizione e aderisce a una delle tesi centrali del partito ghibellino quando individua il concetto «autentico» della dualistica coesistenza di Papa e Imperatore. La «più antica e solida teoria», stabiliva che l’autorità imperiale non fosse delegata dal Pontefice ma provenisse direttamente da Dio nella sfera di competenza del secolo, laddove l’Onnipotente era rappresentato dal papa «non in ogni competenza ma solo come governante degli spiriti in Cielo». Una titolazione ufficiale dell’Imperatore era «Difensore e Avvocato della Chiesa cristiana».
I capitoli seguenti introducono il lettore al grande conflitto giuridico, ideologico e teologico tra Papato e Impero la cui prima tappa (il Concordato di Worms del 1122) si conclude con un imperatore dalla «gloria offuscata e un potere infranto». Un Impero assediato dai signori feudali tedeschi, dalle leghe comunali italiane, dalla Curia romana e dai re delle nascenti, e sempre più agguerrite, monarchie nazionali. Eppure esso sopravvisse anche alla seconda e ben più rovinosa caduta degli Staufen (seconda metà del XIII secolo), Ma in realtà, aggiunge Bryce, la sopravvivenza materiale fu dovuta anche (e non in misura minore) alla sempre più stretta identificazione tra Impero e Regno di Germania. Quel che seguì fu una lunga storia di progressivo smarrimento del senso profondo di esistenza del Sacro Romano Impero: circoscrivendosi alle regioni di lingua tedesca, con imperatori quasi tutti tedeschi, esso rinunziò (o meglio: fu costretto a rinunciare) all’universalismo cristiano e cioè alla sua anima.
Nel XIV secolo ancora si assiste alla cavalleresca e illusoria avventura dell’imperatore Arrigo VII del Lussemburgo, esaltato da un ancor più illuso Dante Alighieri (il cui trattato De monarchia, la cristallizzazione intellettuale più elevata delle dottrine di parte imperiale, fu «un epitaffio piuttosto che una profezia» dell’Impero). Due capitoli (il XVI e il XVII, dedicati rispettivamente alla Città di Roma nel Medioevo e all’ Impero romano d’Oriente) rompono l’ordine cronologico dell’esposizione. I capitoli XVIII–XXI, dedicati all’evoluzione (o meglio: degenerazione) dell’Impero in età moderna, sino all’epilogo del 1806.
Nell’ultima parte del libro, sembra che Bryce abbia l’ingrato compito di descrivere le vicendel dell’impero, di un moribondo che non vuol morire, un cadavere trascinato dalle correnti del flusso storico, o un fossile giuridico–istituzionale ammantato però di un alone di reverenza.
Dopo la Pace di Westfalia si conservava ormai solo «la farsa di un impero», e alla fine del XVIII secolo «filze di titoli pomposi erano tutto ciò che fu lasciato dell’impero che Carlo aveva fondato, a cui Federico aveva dato prestigio e che Dante aveva cantato». Infine, solo molto forzatamente si possono ricondurre alla tematica del Sacro Romano Impero i due ultimi capitoli del libro (cap. XXIII: Il cammino della Germania verso l’unità nazionale; cap. XXIV: Il Nuovo Impero tedesco: entrambi i capitoli furono aggiunti nell’edizione del 1904).
Alla fine del suo studio Petrosillo si chiede il perché della pubblicazione The Holy Roman Empire a più di un secolo dall’ultima edizione. Uno dei motivi potrebbe essere quello che ci riguarda direttamente. Ripercorre la plurisecolare storia dell’Impero medievale, soprattutto nel suo ruolo di Ente giuridico universale in dialettica tensione con i particolarismi locali, il pensiero del lettore contemporaneo corre subito all’Europa o meglio a quella Unione Europea che vorrebbe proporsi, almeno nelle intenzioni, quale organismo politico e giuridico capace di unire i corpi intermedi senza calpestarli. Ma la lezione che si trae dalla storia dell’Impero medievale è dura: quando l’Impero, che non fu mai un agglomerato di interessi contingenti ma una forza innanzitutto “ideale”, posta al servizio della pace e della cristianità, cessò di alimentarsi di sostanza etica e spirituale (universalismo; romanità; cristianesimo), esso decadde e si estinse. Pertanto se vogliamo proporre questo audace parallelismo, l’Unione Europea, deve recuperare quel forte impulso che gli hanno dato gli statisti, i principali dei quali si ispiravano a un cristianesimo non confessionale. L’Europa deve ritornare a consolidare la forza morale che un tempo la fece nascere. Non solo io aggiungerei occorre ritornare a studiare l’ultimo imperatore di quell’Austria-Ungheria, Carlo I d’Asburgo (1887-1922) erede, almeno nella memoria dei suoi sovrani, del Sacro Romano Impero medioevale. Proprio dalla pace dobbiamo cominciare. La pace è stata l’ultima speranza del beato Carlo. Accortosi della tragedia della Grande Guerra (1914-1918), nella quale era stato coinvolto il prozio imperatore Francesco Giuseppe (1830-1916), cercò di fare in modo che l’impero che aveva ereditato ne uscisse quanto prima possibile, senza peraltro subire conseguenze troppo gravi. Il suo proposito venne impedito dal militarismo e dal nazionalismo tedesco, dalla componente filogermanica all’interno del suo stesso impero, dalla massoneria che voleva la cancellazione dell’ultimo impero cattolico, dai governanti dell’Intesa — specialmente dal Regno d’Italia — che forse pregustavano la vittoria totale e non volevano concedere trattamenti migliori all’Austria-Ungheria. Allora, “Da Carlo a Carlo. Il Sacro Romano Impero e il «sogno» di un’altra politica”, titolava uno studio di qualche anno fa lo studioso cattolico Marco Invernizzi.
DOMENICO BONVEGNA
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