Continua la mia attenzione nei riguardi degli studi sul pensiero conservatore, in questa occasione presento un saggio abbastanza approfondito e impegnativo che da tempo dovevo leggere: “Italia reazionaria. Uomini e idee dell’antirisorgimento”, (Bruno Mondadori, 2017) l’autore è Nicola Del Corno, docente di “Storia delle Dottrine Politiche” e “Storia del pensiero politico contemporaneo”, presso la facoltà di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Milano.
Il testo di 256 pagine ma scritte con la grafia piccola, è composto di dieci capitoli. Il pensiero e l’azione dei reazionari, risulta un argomento poco studiato dalla storiografia nazionale. La colpa secondo l’autore del libro forse bisogna darla ai giudizi di parte che hanno dato certi storici autorevoli(?) come il Salvatorelli, che non vedeva in loro che poca visione politica, ma soltanto affermazioni polemiche. I nomi a cui si fa riferimento sono il Principe di Canosa, Monaldo Leopardi, Clemente Solaro della Margarita, anche se c’erano teorici rispettabili come Antonio Rosmini, Taparelli D’Azeglio. Del Corno nell’introduzione cita diversi nomi di studiosi che più o meno hanno studiato questi pensatori, definiti reazionari e tutti vissuti nell’Ottocento. A voler far qualche nome, si fa riferimento agli studi di Omodeo, Maturi, Miglio, Jemolo, Parlato, Benedetto Croce, Della Peruta, per finire a Silvio Vitale, Francesco Leoni, Del Ninno, Isabella Rauti, Angela Pellicciari. La critica a questo mondo conservatore, a tratti assomiglia a quella polemica presente in certi ambienti politici, dove si sostiene che a Destra non c’è cultura. Tuttavia l’Antirisorgimento possiede anche i suoi eroi che vanno dagli insorgenti, ai lazzaroni, ai briganti del 1860-1864, che testimoniano l’esistenza di un’Italia cattolica e lealista, pronta a sollevarsi in armi contro i mentori del progresso.
Tra gli autori che hanno cercato di rivalutare i pensatori che hanno operato nello schieramento controrivoluzionario e reazionario, Del Corno cita Silvio Vitale, che ha ripubblicato la famosa “Epistola del Canosa contro Pietro Colletta”. Francesco Leoni, con la sua “Storia della Controrivoluzione in Italia (1789-1859)”, ha rimarcato come dopo la Restaurazione i reazionari “giocarono il ruolo delle Cassandre inascoltate”, cercando di mettere in guardia i loro sovrani dalle “contaminazioni rivoluzionarie”che sempre più “vedevano proliferare all’ombra di una tolleranza giudicata poco meno che suicida”. Sostanzialmente i governi dei sovrani avrebbero dovuto sostenere, il movimento reazionario, ma non lo hanno fatto, così fu un movimento quasi esclusivamente intellettuale, con una sua dottrina vera e propria. Giuseppe Maria Del Ninno in una antologia comprendenti testi di questi conservatori italiani, lamenta che a differenza di quello che è successo in altri Paesi, in Italia gli autori controrivoluzionari “furono dalla storia aggiogati al carro perdente e sepolti negli angoli più riposti delle biblioteche”; eppure per Del Corno, questi uomini che lui cerca di presentare furono portatori di istanze di valore universale. Però una volta che alle parole reazione, tradizione e conservazione è stato attribuito un concetto intrinsecamente ‘cattivo’, è bastato mettere queste etichette addosso ai vari De Maistre, Donoso Cortes per essere collocati fuori dalla storia. Secondo Isabella Rauti, il movimento reazionario italiano fu “ricco di idee”, e se non riuscì a diventare protagonista nel dibattito pubblico, la colpa è di quei sovrani che non riuscirono a capire l’importanza del loro ruolo politico. Infine merita un riferimento gli studi di Angela Pellicciari, che fin dal suo “L’Altro Risorgimento”, ha colto il lavoro devastante dei Poteri forti, dell’internazionale liberale di derivazione protestante e massonica, nell’attacco al Papato e a tutti i Regni preunitari. Tuttavia concludendo la parte introduttiva Del Corno sostiene che i nostri reazionari a livello dottrinale non possono essere paragonati ai vari conservatori di alto spessore, come Burke, De Maistre, Bonald, Haller, Donoso Cortes.
La prima figura esaminata dal professore della Statale è quella di monsignor Paolo Vergani, è il 1° capitolo, (tra Illuminismo, Rivoluzione francese e Restaurazione). Fu assessore alle finanze e al commercio nello Stato pontificio, poco prima dell’avvento della repubblica romana, nemico della Rivoluzione giacobina. Scarsa risulta la storiografia sul personaggio che non sempre fu coerente politicamente, cambiò diversi “partiti”. Naturalmente non starò qui a descrivere il suo impegno politico e amministrativo. Il professore ne fa un’adeguata descrizione citando diverse opere. Interessante il dibattito intorno al duello e alla pena di morte. Da segnalare una sua opera, “La democrazia combattuta con l’esperienza di tutti i secoli”, il cui bersaglio principale era Rousseau. La democrazia rappresenta il peggior di tutti i governi, una bella idea in teoria, ma poi disastrosa nella pratica effettiva. Vergani era contro il parlamentarismo, poiché i deputati pensano solamente al proprio tornaconto, e non ai bisogni della collettività. Comunque il monsignore constatava che i rivoluzionari non avessero mai goduto dell’appoggio popolare, la gran massa delle diverse popolazioni dell’Italia fu interamente insensibile alle loro seduzioni.
Il 2° capitolo affronta “La Restaurazione secondo il principe di Canosa. “Un dispotismo vigoroso ed estremamente attivo”. Più che un teorico, il napoletano Antonio Capece Minutolo, noto come il principe di Canosa, si considerava un politico in senso stretto, ossia un uomo di Stato, un uomo d’azione. Per due volte fu titolare del ministero di polizia del regno delle Due Sicilie, negli anni 1817 e 1821. Incarichi che per lui non furono per niente esperienze gratificanti, fu rimosso dopo breve tempo perché il suo programma, la sua linea di azione era inconciliabile con quella di Luigi de’ Medici, primo ministro del governo napoletano, che sostanzialmente si ispirava alle nuove tendenze politiche scaturite dal Congresso di Vienna, in cui Canosa non poteva assolutamente riconoscersi. Medici era fautore di quella politica dell’amalgama, che significava dopo mezzo secolo di rivoluzioni e guerre, superare le contese e scendere a compromessi anche con chi aveva partecipato ai governi rivoluzionari, napoleonidi e murattiani. Canosa non si accontentò neanche della restaurazione borbonica di Ferdinando, che non aveva fatto quella epurazione degli elementi eversivi da lui auspicata. Fu una restaurazione incompiuta, soprattutto perché si perpetuava la politica dell’amalgama. Si premiarono i settari, i malvagi, i ribelli e i regicidi, questo fu il programma della restaurazione. Per Del Corno il Canosa aveva una visione politica, del mondo, dualistica e manichea. Per cui la storia del passato veniva divisa rigidamente in buoni e cattivi. Il ritorno al passato per il politico napoletano non poteva che essere totale e senza compromessi. Alle sette rivoluzionarie il Canosa intendeva opporre un’altra società segreta, disciplinata e protetta dallo Stato, una milizia popolare lealista, in modo che sorvegliasse quegli strati della popolazione meno controllabile, che servisse a combattere la carboneria con le sue stesse armi. “Il progetto di creare una base armata nel basso popolo al servizio del trono rimase comunque un’idea del Canosa, che pragmaticamente comprendeva quanto fosse importante salvare ‘i lupi dal gregge’”. Tuttavia il Canosa raccomandava di usare “il minimum della forza e il maximum della filosofia”. Anche perché creare martiri rendono i rivoluzionari più pericolosi. Del Corno sostiene che Canosa voleva fare una sorta di internazionale vandeana, una lega reazionaria tra gli esponenti della “buona causa”, da opporre alla marea montante del liberalismo e della democrazia. Il principe si rendeva conto che l’azione e il pensiero controrivoluzionario avevano bisogno di un coordinamento e di una rete di collegamento. Pertanto auspicava un’alleanza, un’azione comune, tra tutte le forze legittimiste per combattere la Rivoluzione. Inoltre, era consapevole che non bisognava assolutamente riproporre l’ancien regime, spazzato via dall’esperienza rivoluzionaria. Mentre il Papa doveva essere il punto di riferimento, la guida spirituale della cristianità, una concezione ripresa dal Du Pape di De Maistre. Anche Canosa riteneva fondamentale l’alleanza tra il Trono e l’Altare, nei suoi scritti amava “atteggiarsi a paladino della cristianità secondo modelli medievali; appariva spesso disposto ad incrociare le armi contro chiunque osasse offendere o mettere in discussione i fondamenti delle fede cattolica, quanto risoluto a mettere i propri averi e la propria vita a repentaglio con un ardore e una dedizione alla sacra causa che richiamavano gesti d’altri tempi[…]”. Il Canosa sentiva da cristiano il dovere di impegnarsi nella buona battaglia per la fede come un novello e orgoglioso crociato. Per Canosa non c’erano compromessi o il Papa o la Rivoluzione. La Chiesa doveva tornare con più decisione ad assumere anche funzioni sociali, soprattutto nel campo pedagogico. Il clero doveva frenare l’immoralità e il progressivo sfacelo dell’umanità. Un sicuro modello di restaurazione politica e sociale per il Canosa era la Spagna cattolica e guerriera, la Spagna controriformista di Filippo II, la Spagna della guerra d’indipendenza antifrancese. La Spagna con il suo passato monarchico, ma attento alle prerogative dei corpi intermedi, al Canosa appariva un punto di riferimento per un’autentica restaurazione controrivoluzionaria. Secondo l’insegnamento di De Maistre, non una rivoluzione contraria, ma il contrario della rivoluzione.
Il 3° capitolo “La polemica anticostituzionale in Monaldo Leopardi”.
Il padre del più celebre figlio, chiuso anche lui nella sua Recanati i suoi studi furono chiari e sintetici, nell’esporre le sue “certezze” sulla società. Non ebbe meditazioni originali, ma utilizzò tesi propagandistiche e combattive, riprese dai libri della sua fornita biblioteca. Sono presenti quasi tutti i classici della politica da Machiavelli , Bodin, Suarez, Rousseau a De Maistre. Fu un lettore assiduo di giornali e gazzette. Monaldo Leopardi chiarisce che fin dalla nascita non possiede alcun diritto prestabilito. La Sacra Scrittura non parla di diritti, bensì di doveri, “i libri santi sono un codice di leggi e non un diploma di privilegi”. La dottrina dei diritti promulgata dalla filosofia, ha seminato il disordine e la strage sopra tutta la terra; il riferimento è evidente alla Rivoluzione francese. Anche i governanti devono osservare precisi doveri. I governanti non devono rendersi tiranni, non uccidere, ferire o percuotere senza motivo i sudditi, non esigere tributi maggiori di quanti sono necessari allo Stato. “Il popolo non deve quindi cercare le sue garanzie in astratte costituzioni, scritte a tavolino dalla imperfetta mano umana – ‘nei deliri della filosofia’”. Leopardi dà dei consigli al sovrano a cominciare dall’ascoltare l’assemblea, magari ristretta di sudditi, considerandola una sorta di contrappeso all’invadenza ministeriale. Consultare non solo quelli che vivono nella capitale, ma anche chi abita nelle province, in modo di poter conoscere realmente tutte le esigenze della nazione. Lasciare degli spazi di autonomia ai propri sudditi, soprattutto quelli che riguardano l’autogoverno comunale. Il recanatese critica alcuni aspetti del sistema rappresentativo, delle elezioni, del Parlamento, “luogo dove il frenetico accavallarsi di voci, opinioni, interessi, litigi impedisce ogni possibilità di prendere serenamente le decisioni opportune per il bene pubblico”. Molto ha discusso sulla divisione dei poteri, un vero e proprio cavallo di troia che i liberali vogliono inserire nelle istituzioni per scardinare la tradizionale sovranità dei principi, “mettendole “i ceppi e le manette” costituzionali per impedirle di governare con la necessaria autorità la società”.
4° capitolo, “Un’apocalisse controrivoluzionaria. La fine del mondo dell’abate Antonio Riccardi”. Adolfo Omodeo che ha studiato la cultura nell’epoca della restaurazione ha scritto che gli ultraconservatori erano convinti che la Restaurazione non aveva cancellato del tutto ogni retaggio rivoluzionario e napoleonico, se c’era stata una “riconquista”, era da considerarsi parziale, non c’era stato un deciso mutamento di rotta. Il titanico sforzo controrivoluzionario compiuto dai conservatori era destinato inevitabilmente al fallimento, peraltro senza ricevere neanche il sostegno da parte delle autorità legittimiste. Infatti, i governi restaurati non avevano alcuna intenzione di acconsentire al progetto reazionario conservatore che “mirava a cancellare totalmente l’ultimo mezzo secolo di storia”, preferivano concedere spazi, politici e amministrativi, seppure parziali ai liberali. E questo per i reazionari era impensabile, si tramutava in una frustrazione e in un esasperato pessimismo. “Negli scritti dei reazionari italiani era sempre presente il fondato timore che le provvisorie restaurazioni legittimiste, seguite da altrettanto effimere rivoluzioni liberali e democratiche, non fossero abbastanza forti, non solo politicamente e istituzionalmente, ma anche e soprattutto culturalmente, per fronteggiare in maniera concreta e definitiva il ripetersi di nuovi tentativi insurrezionali”. Praticamente i conservatori italiani ritenevano che le autorità governative avevano dato troppo spazio alla “seducente propaganda sovversiva dei liberali, considerati gli epigoni di quel furioso spirito antiautoritario e miscredente che prima con la Riforma, poi con l’illuminismo e la Rivoluzione francese, ora con il liberalismo, metteva continuamente a repentaglio la naturale e secolare stabilità europea […]”. Tuttavia oltre a un pessimismo contingente c’era quello antropologico tra i conservatori, l’umanità aveva bisogno di essere governata, guidata da norme etico-politiche rigidamente stabilite. Il futuro promesso dai liberali faceva paura al mondo conservatore, la società prospettata era la “città dei cannibali”, così veniva raffigurata e ricordata la democrazia giacobina. Il mondo reazionario dell’epoca oscillava tra un pessimismo culturale e politico di fondo a un ottimismo strumentale. In questa ambiguità viene presentata la figura dell’abate bergamasco Antonio Riccardi con i suoi scritti pedagogici e morali. Riccardi aveva scritto nel 1839 un apocalittico opuscolo dal significativo titolo, “La fine del mondo”. Una analisi della realtà politica e sociale abbastanza pessimistica, che si basava su una profezia, cosiddetta di Orval, un testo dato del 1544 che riguardava la Rivoluzione francese, Napoleone etc. L’abate bergamasco vedeva nel suo tempo un’apostasia evidente tanto religiosa che politica, che significa ribellione ad ambedue autorità tutelari della società, la Chiesa e il Principato. Una ribellione predicata dalle “sette” politiche, che andava considerata come una ribellione a Dio. Pertanto il Trono e l’Altare secondo Riccardi si trovavano alleati insieme “nel respingere, il rinnovato, questa volta decisivo, assalto dei comuni avversari, i quali miravano con un’azione concorde a ‘sostituire una nuova e ribelle sovranità nel popolo’”.
Continua…
DOMENICO BONVEGNA