L’ANTIRISORGIMENTO DEI CONSERVATORI ITALIANI – Parte 2

Il 5° capitolo dedicato ad Antonio Bresciani, romanziere antirisorgimentale.

Per il padre gesuita Bresciani il Romanticismo e il Liberalismo non sorti dal nulla, ambedue avevano dei genitori spirituali, che il religioso individuava nel protestantesimo e nella Rivoluzione francese. Bresciani aveva capito dell’importanza dei romanzi e di conseguenza delle “eroine” di questi romanzi, nel diffondere la Rivoluzione, soprattutto fra le donne e i ragazzi, considerate due categorie particolarmente esposte al rischio di questa nuova strategia rivoluzionaria questo il Bresciani propose attraverso la rivista “La Civiltà Cattolica”, di pubblicare buoni romanzi per contrastare quelli rivoluzionari. Dal 1850 al 1862 Bresciani propose a puntate sulla rivista una serie di romanzi storici, destinati a riscuotere un discreto successo. Per quanto riguarda la storia dell’Italia il Bresciani si impegnò nel rivalutare il Medioevo. Ha capito dell’importanza di lavorare nella cultura per cercare di contrastare il mondo delle settario e rivoluzionario che aveva conquistato i giornali ed anche le università.

Il Saggio contro il socialismo di Emiliano Avogadro della Motta, è la figura descritta nel 6° capitolo. Se prima del 1848 l’avversario da demonizzare per il mondo ultra conservatore era rappresentato dal giacobino e massone, dopo il ’48 fu il socialista e il comunista. Ha cominciato Carlo Maria Curci a metter in guardia contro questa nuova utopia del socialismo. Il “terrore del terrore” rosso dei socialisti ritornava anche negli articoli di Antonio Rosmini. E poi del padre redentorista Luciano Liberatore, che presentava il socialismo come “un catastrofico castigo mandato da Dio per punire quei popoli che più si resero ribelli alle prescrizioni della Chiesa cattolica e al potere assoluto e divino dei legittimi sovrani”. Ma anche la “Civiltà Cattolica” e soprattutto “L’Armonia della religione colla civiltà” di Giacomo Margotti, metteva in guardia i lettori dal socialismo, che voleva l’Italia “rossa di sangue, seminata di teste, sparsa di cadaveri”. Tuttavia dello scontro finale tra cattolicesimo e socialismo costituiva l’ossatura del lavoro del vercellese Emiliano Avogadro della Motta, “Il Saggio intorno al socialismo e alle dottrine e tendenze socialistiche”, uscito nel 1851, che riecheggiava in qualche modo anche nel titolo “l’Ensayo sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo”, di Juan Donoso Cortes. Il testo di Della Motta è un poderoso volume quasi mille pagine, prospettava il socialismo come l’ultimo anello della catena delle grandi ribellioni all’ordine stabilito iniziata con la Riforma. Il saggio fu accolto con grande favore nel mondo ultra conservatore, in particolare da La Civiltà Cattolica e da Clemente Solaro della Margarita, leader reazionario del momento.  Tra i vari studiosi che si sono occupati di Avogadro della Motta, il Del Corno, invita a prendere in considerazione i lavori di Giuseppe Bonvegna,“La personalità e l’opera filosofica-politica di un pensatore cattolico dell’Ottocento: Emiliano Avogadro della Motta”, in “Annali di storia moderna e contemporanea”, IX (2003), pp. 583-600; “Il rapporto tra fede e ragione in Avogadro della Motta”, “Sensus communis”, IV (2003), pp. 19-36. Avogadro nelle sue opere arrivò a difendere il potere temporale del papa, con la pubblicazione di due opuscoli. Nel primo il conte affermava che “in Italia non si sarebbe potuti arrivare ad una confederazione di Stati, e tantomeno  all’unità di un unico Stato, esistendo storicamente insuperabili differenze di ogni tipo fra Stato e Stato, sia soprattutto che i possedimenti temporali del papa, stabiliti dalla Provvidenza, erano indispensabili per la sua  sovranità spirituale, oltreché garanzia d’indipendenza e libertà per l’intera penisola”. Nel secondo opuscolo, Avogadro era convinto che Roma non sarebbe mai diventata capitale del regno italiano, dal momento che i suoi abitanti non ne avevano nessuna voglia, per cui appariva “quantomeno assurdo elevare a tale ruolo una città che poco o nulla aveva avuto a che fare con la creazione e la formazione dello Stato italiano”.

Comunque l’autore del libro evidenzia che il pensatore cattolico di Vercelli, pur avendo avuto un ruolo di primo piano come parlamentare dal 1853 al 1856 e come esponente dello schieramenti antiliberale e antiunitario non ha mai goduto di troppa attenzione da parte della storiografia. Anche se le sue riflessioni politiche e filosofiche sono di un certo spessore, sicuramente più incisive di un principe di Canosa o di un Monaldo Leopardi. Della Motta era convinto che per contrastare le idee socialiste serviva una articolata opera di informazione politica e culturale, rivolta ai diversi settori della società. Serviva una sorta di controrivoluzione scientifico-culturale, attraverso i capisaldi della dottrina cattolica. Ristabilendo innanzitutto la verità del linguaggio, perché ormai tutti utilizzano le parole civiltà, libertà, religione, diritto, ma pochi conoscono il significato. Era convinto che il socialismo nasceva da tre negazioni: il protestantesimo, l’illuminismo e infine l’idealismo. Socialismo e comunismo per Avogadro andavano considerati come i due estremi di un identico sistema. Passando in rassegna l’arcipelago socialista, tra i vari rappresentanti Avogadro teme di più Proudhom, come “il più superlativo nella orbita delle aberrazioni”. Mentre Mazzini rappresenta il più potente intelletto che i settari possiedono in Europa. Il socialismo non doveva essere sottovalutato dagli uomini di Stato, di Chiesa, di cultura, così come dai semplici cittadini. Era necessario combatterlo soprattutto dal punto di vista intellettuale. Sostanzialmente per Avogadro era il prodotto di tutte le eresie e miscredenze che finora avevano devastato il mondo. Nelle considerazioni del vercellese, il socialismo rimaneva “la cloaca massima [che] riceve le immondizie di tutte le eterodossie precedenti”. Tuttavia anche Avogadro vedeva uno scontro radicale fra le due posizioni, quella cattolica e la Rivoluzione socialista. Proprio per le sue vaste dimensioni ideologiche, non ammetteva compromessi, pertanto Avogadro, respingeva “la posizione di tanti moderati, i quali ‘onesti, ma ciechi, melensi, inerti, troppo vergognosamente aggirati da piccolo numero di ipocriti’, si ostinavano nel perseguire un programma laico, ispirato a rendere ‘l’Italia meno che si possa papistica’”. Avogadro aveva capito tutto dello scontro epocale in atto nel nostro Paese. Sostanzialmente si intendeva scristianizzare l’Italia.

Il 7° capitolo tratta di “Milano antirisorgimentale. Il giornale ‘La Bilancia’, diretto dal ticinese Angelo Somazzi. Sia il giornale che il suo direttore esimi sconosciuti per la storiografia ufficiale dei vincitori. Eppure La Bilancia usciva tre volte alla settimana, pubblicato per ben otto anni. Il primo numero è uscito il 5 novembre 1850, da subito qualificato come il più acceso e manifesto sostenitore della reazionaria politica asburgica post-quarantottesca. Per Somazzi, si poteva, anzi si doveva, essere buoni italiani unicamente restando fedeli all’autorità dei diversi sovrani, legittimati dal tempo, dalla consuetudine e dal magistero pontificio, senza inseguire insicure “grandezze, sul tipo dell’antica grandezza pagana”. Somazzi e il suo giornale nonostante le dicerie di essere sostenitore del governo asburgico, ci teneva sempre a ribadire la sua indipendenza da qualsiasi pressione politica. Il giornale in quegli anni veniva diffuso capillarmente in tutti gli strati sociali. Chiaramente le sue pagine cercavano di fare chiarezza politica sul piccolo Piemonte, lo Stato Sabaudo e la sua disastrosa economia. Denunciava l’imbroglio elettorale che causa scelleratezze alla società piemontese del tempo. In particolare il regime costituzionale e parlamentare, che invece di arrecare benefici, il Piemonte era a rischio di continua allarme rivoluzionario. Il giornale criticava Cavour, con la sua politica di contraddizioni. Denunciava l’Inghilterra che muoveva tutte le rivoluzioni in corso in Europa. Somazzi in contrasto con la fantomatica fratellanza dell’Europa dei popoli di Mazzini, auspicava una ben più concreta alleanza dei governi conservatori europei, per una politica conservatrice. Per l’Italia auspicava una Confederazione di Stati a scopo difensivo, per quanto riguarda l’unità del Paese, per Somazzi, esisteva già, “nella religione e nell’idioma”. Nella lotta alla rivoluzione vedeva in primo piano i preti, che non potevano dichiararsi super partes, con le loro armi morali, educative e sociali, potevano dare un grande contributo nel “raddrizzare nel popolo le false idee”. Occorreva ritornare alla militanza controrivoluzionaria, perché lo scontro era in atto da tempo, tra l’Ordine e la Rivoluzione. Bisognava scegliere con chi stare, l’indifferenza non era sostenibile, diventava colpevolezza.

L’8° capitolo si occupa delle “Patrie reazionarie”. Significativa in questo capitolo l’accenno dell’autore del libro al grande gesuita e filosofo Luigi Taparelli d’Azeglio, fratello del più celebre Massimo d’Azeglio. Per il gesuita non era necessaria l’indipendenza per essere una nazione, c’era piuttosto “bisogno di un ordine stabilito in modo che la popolazione potesse prosperare nella sicurezza e tranquillità, anche se il governo poteva provenire da oltre confine”. Taparelli considerava importante per il popolo italiano appartenere ad una grande nazione cattolica, qualunque fossero i suoi confini. Per l’Italia è meglio mantenere “robuste le sue tradizioni religiose, invece di cedere al demone rivoluzionario e alle parole d’ordine indipendentiste in voga in quel momento, il nostro paese si sarebbe assicurato di far parte di una più vasta ‘società’ internazionale […]”.Anche per questo pensatore Del Corno rimanda per approfondire ad altri studiosi, tra cui il già citato Giuseppe Bonvegna, “Luigi Taparelli D’Azeglio e la questione della nazionalità”, in “Annali Italiani”, II (2003), n.3, pp.23-29.

Il 9° capitolo, La setta e i complotti. Un’ossessione controrivoluzionaria”. Del Corno qui per descrivere il fenomeno del complottismo, della cospirazione, cita due libri, l’opuscolo del conte Ferrand, “Le Conspirateures femasques”, che ha individuato le cause che portarono allo scoppio della Rivoluzione francese. E poi la ponderosa opera del gesuita Augustin Barruel, “Memoires pour servir a l’histoire du Jacobinisme”, si pretendeva con un’ampia documentazione di mostra che la Rivoluzione, fosse l’esito di un complotto, preparato fin nei minimi particolari. Barruel fa anche i nomi a cominciare dai philosophes enciclopedisti. L’opera di Barruel divenne un best seller della controrivoluzione e immediatamente tradotta in diverse lingue. Anche in Italia il mito della macchinazione trovò terreno fertile, Del Corno fa qualche nome, l’abate Nicolò Spedalieri, Paolo Vergani, il Canosa stesso, Avogadro della Motta, Giacinto de’ Sivo ed altri, Del Corno annovera addirittura anche Giovanni Cantoni, ma qui credo che prende una “cantonata”.

L’ultimo capitolo è dedicato alla Romagna reazionaria, e ad una “Milizia” più o meno controrivoluzionaria: Il caso dei Centurioni.

Un tema quasi sconosciuto ai più, si tratta di una milizia irregolare, operante nelle regioni dello Stato Pontificio, a metà strada fra la setta segreta e la formazione paramilitare di polizia. Secondo quello che scrive l’autore del libro, ma anche con riferimenti alle poche fonti disponibili, questi centurioni erano utilizzati dal governo pontificio per favorire un clima da strategia della tensione. Una milizia di volontari che per combattere il settarismo dei liberali e massoni utilizzava anche il terrore e sostanzialmente creava un clima di contrapposizione nella società del tempo. Mi fermo, l’argomento meriterebbe ulteriori approfondimenti, ma non posso abusare della vostra attenzione, tuttavia ribadisco, i miei interventi sono degli studi per chi vuole veramente conoscere magari senza leggere materialmente il libro.

DOMENICO BONVEGNA

dbonvegna1@gmail.com