Sabino Cassese, docente presso la School of Government della Luiss, giudice costituzionale, Ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi nonché autore del recente saggio Amministrare la nazione (edito nel 2023 da Mondadori) prende in esame le incognite della prossima stagione di riforme in Italia. Oltre al nodo della Pubblica amministrazione, cruciale per attuare i piani di governo, nell’intervista il Prof. Cassese esamina in qualità di giurista i nodi costituzionali riguardanti stabilità dell’esecutivo, autonomie regionali, partecipazione politica e società.
Sferzante ed efficace l’immagine che restituisce della Pubblica amministrazione in Italia, fatta di “ottimi orchestrali”, dove però “manca il direttore d’orchestra”.
Professor Cassese, l’originale immagine che utilizza nel pamphlet per fotografare l’attualità coglie una dialettica conflittuale tra i poteri dello Stato, che è poi il primo ostacolo delle riforme. Possiamo spiegarla in termini comprensibili?
Semplificando molto direi che il prisma ha molte facce, così pure la società e lo Stato italiano, progrediti per un verso, arretrati per un altro, all’avanguardia in alcuni campi, in retroguardia in altri. Siamo “antichi” e moderni allo stesso tempo, sostanziati da un’ambivalenza che rende difficile interventi e valutazioni.
Questa doppia faccia è attualmente incarnata dalle spinte autonomiste e dalla tensione verso il presidenzialismo, progetti confliggenti, che la maggioranza di governo sembra intenzionata a portare avanti. Modificare la Costituzione presenta dei rischi sul piano degli equilibri democratici?
Le due tendenze non sono incompatibili l’una con l’altra. L’una risponde al bisogno di continuità dell’esecutivo. Occorre non dimenticare che abbiamo avuto 68 governi diversi in 75 anni di storia repubblicana. L’altra risponde al bisogno di autonomia: occorre non dimenticare che fin dall’unità d’Italia sono stati avanzati progetti regionalistici, che i costituenti speravano che l’autonomia regionale potesse dare al Paese quel pluralismo che non aveva avuto, che le regioni hanno atteso poi 22 anni per essere concretamente realizzate, che un’esperienza di metà secolo, a partire dal 1970, richiede, da un lato, un check-up, dall’altro un avanzamento per restare in vita, e questo potrebbe richiedere anche un ridisegno delle regioni esistenti.
Sono passati trent’anni dal decreto legislativo di riforma della PA che porta il suo nome. In questo lungo arco di tempo sono stati molteplici gli interventi finalizzati al superamento delle croniche disfunzioni dello Stato. Ci sono le condizioni per sperare in un cambio di passo?
Ogni disegno di modernizzazione dello Stato e della Pubblica amministrazione parte della necessità di un’effettiva “industrializzazione” di reti e apparati. Occorre ridefinire i processi di decisione, calcolare i tempi, facendoli rispettare, premiare i migliori. Tutto questo non solo nella burocrazia, ma anche nella giustizia. Abbiamo ottimi orchestrali, ma manca il direttore d’orchestra e questa assenza si fa sentire quasi dovunque.
Sarà l’anno dell’autonomia differenziata, ha annunciato Salvini. Leggendo il suo saggio balza, però, agli occhi la perdurante “disunità ” della Penisola. Quali sono le ragioni di questa frammentazione che da sempre segna la storia d’Italia?
Il Mezzogiorno di oggi non è più il Mezzogiorno di ieri, nel senso che ha fatto progressi. Tuttavia, il divario è rimasto, perché il Nord è andato più veloce del Sud. L’impegno meridionalistico della nazione, nel corso di un secolo e mezzo dall’Unità, ha avuto fasi alterne e questa assenza di continuità ha prodotto l’attuale situazione. Basti ricordare che la distanza tra Roma e Milano è all’incirca quella che c’è tra Roma e Cosenza e che per andare da Roma a Cosenza occorre il doppio delle ore necessarie per andare a Milano.
Le ragioni del divario sono molteplici. Quando si è tentato di porre rimedio, i risultati sono sempre stati inferiori alle attese. Si tratta della manifestazione di un ennesimo deficit delle nostre classi dirigenti?
Occorre abbandonare l’ottica causa-effetto e seguire l’insegnamento di Bertrand Russell, valutando le molte concause. Tra queste, metterei al primo posto il fattore antropologico e culturale, la prevalenza di una cultura di stampo idealistico invece che empiristico, la stessa mancata industrializzazione del Sud, che ha attivato il circolo vizioso della meridionalizzazione dello Stato e ha impedito il formarsi di una mentalità industriale, insieme alla diffusione dello “scientific management” e del taylorismo nel nostro Mezzogiorno.
“Lo Stato oggi appare distante da un individuo anomico e asociale”: la sua è una denuncia dai toni gravi, perché articolata da un costituzionalista. Cosa bisogna fare per ridare fiato alla partecipazione democratica, facendo crescere individui consapevoli e maturi?
Tutto parte dal grado di scolarizzazione della nostra società, quindi dal livello culturale e intellettuale di giovani e anziani. Siamo agli ultimi posti in Europa e molto lontani da paesi come il Giappone la Corea. Inoltre, i grandi formatori dell’opinione pubblica, gli strumenti essenziali per mantenere un rapporto tra società e Stato, cioè i partiti, sono oramai scomparsi, al punto tale che l’unica forza politica presente in Parlamento che conserva la parola partito nella propria denominazione appare sul punto di abbandonarla. C’è, poi, il grande divario tra partecipazione politica passiva e partecipazione politica attiva. La prima coinvolge il 70% delle persone con più di 14 anni, la seconda soltanto l’8%. Vuol dire che c’è un enorme spazio che si potrebbe coprire, ma l’assenza dei partiti nella società non riesce a colmare questo grave gap. Questo produce incapacità delle forze politiche di prospettare il futuro, di fare programmi, di cogliere le esigenze fondamentali della società, che riguardano la sanità, la scuola e la protezione sociale, proponendo piattaforme. Bisogna, per dirla in sintesi, andare oltre gli epifenomeni, per provare finalmente ad affrontare i problemi di fondo che condizionano la quotidianità.
Massimiliano Cannata – www.leurispes.it