di ANDREA FILLORAMO
L’accusa più ingiusta che può essere rivolta a Papa Francesco è quella di essere un populista, termine questo ormai di moda che ha il significato di chi assume atteggiamenti che mirano a rappresentare il popolo e le grandi masse esaltandone valori, desideri, frustrazioni e sentimenti collettivi; esso è una massa informe, una miscela di gente “sine nomine”.
Nulla di tutto ciò: Papa Bergoglio è il papa, venuto dalle periferie del mondo, che conosce il popolo, di cui sa cogliere l’anima, ma sa parlare a ciascuno, sa entrare nell’intimo di ciascuno. Il popolo, per Papa Francesco è, come sostiene il Borgese, una “modalità storica in cui la fede innerva la vita, la realtà, la cultura” e che si distanzia “dalle ideologie populistiche”.
Il popolo per Bergoglio, inoltre, come si legge nella Costituzione dommatica conciliare “Lumen gentium” del 21 novembre 1961: “ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr. Gv 13,34). Ha per fine il regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra (cfr. Col 3,4) e «anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio» (Rm 8,21)”.
Il popolo cristiano, quindi, per il Concilio Vaticano II è il “popolo di Dio”, di sua appartenenza e di nessun altro “potere di questo mondo”. Nessuno può sostituire Dio, nessun vescovo, e nessun Papa può prendere il posto di Dio. Chi ha responsabilità ministeriale nella Chiesa è obbligato ad ascoltare il popolo se chiede qualcosa che serve alla sua salvezza.
In realtà ciò non è avvenuto sempre con il Papa precedente, Benedetto XVI, che, a mio parere, non ha ascoltato o non ha potuto ascoltare la “vox populi”, che è “vox Dei”, che lo sollecitava per un cambiamento della Chiesa e un ritorno allo spirito del Concilio Vaticano Secondo.
Diciamolo chiaramente: durante il suo pontificato, il popolo, essendo di per sé portato a disinteressarsi di quanto avviene a Roma, e nel migliore dei casi identificandosi con la propria parrocchia o con il vescovo locale, non ha neppure notato che Benedetto XVI in poco tempo, in un desiderio inesausto di restaurazione della Chiesa in senso anticonciliare si era allontanato – come dice Kung – sempre più dalla grande maggioranza di quello che è l’anima del popolo della Chiesa.
Solo con Papa Francesco la gente, constatando un modo di essere, uno stile di comportamento, un modo di comunicare, dei richiami continui al Vangelo e al Concilio ha avuto la certezza che nella Chiesa si affacciava una nuova stagione, una “primavera”, che presto avrebbe dato i suoi frutti, impensabile nei tempi del Papa tedesco.
Per essere ancora più chiari: Benedetto XVI non ha mai smesso prima e nel corso del suo pontificato, di relativizzare i testi del Concilio, interpretandoli in senso regressivo e contrario allo spirito dei Padri conciliari. Ha accolto nella Chiesa cattolica, senza precondizione alcuna, i vescovi tradizionalisti della Fraternità di S. Pio X, ordinati illegalmente al di fuori della Chiesa cattolica, che hanno ricusato il Concilio su alcuni dei suoi punti essenziali. Non ha realizzato l’intesa con la Chiesa anglicana prevista nei documenti ecumenici ufficiali, ma ha cercato invece di attirare i preti anglicani sposati verso la Chiesa cattolica romana rinunciando all’obbligo del celibato, che ha mantenuto, però, per i preti cattolici. Ha potenziato, a livello mondiale, le forze anticonciliari all’interno della Chiesa attraverso la nomina di alti responsabili. Per venire incontro ai lefebvriani e agli altri tradizionalisti, aveva liberalizzato con il motu proprio “Summorum pontificum”(2007) il messale preconciliare, la cosiddetta “messa in latino”. Infine, travolto dagli scandali sessuali ed economici che hanno trovato terreno fertile nella Chiesa durante il lungo periodo in cui era Papa Giovanni Paolo Secondo, di cui egli era il braccio destro, si è dovuto dimettere. Non ha rinunciato, però, incomprensibilmente, alle insegne pontificie, ad alloggiare all’interno del Vaticano. Non si è dedicato, inoltre, alla preghiera in un convento lontano da Roma, dove non avrebbe potuto fare interviste, presenziare ad alcune liturgie con Papa Francesco e non far nascere il sospetto che ci troviamo con due Papi, anzi con un Papa e un antipapa. Tutto ciò crea imbarazzo ed equivoci nel popolo di Dio, alimenta la schiera dei tradizionalisti che addirittura giungono a dire che Papa Francesco non è il vero Papa. Intanto Papa Bergoglio continua la sua rivoluzione conciliare.
E’ di questi ultimi giorni, l’ultimo atto del Papa argentino: la sua stretta sulle Messe in latino, liberalizzate da Benedetto XVI con il Motu proprio, «Traditionis Custodes», accompagnato da una lettera ai vescovi di tutto il mondo che ne spiega le ragioni.
La ragione essenziale è semplice: la possibilità di celebrare con il rito antico, concessa come una mano tesa ai lefebvriani e ai tradizionalisti, da Benedetto XVI è stata sfruttata con l’intento opposto di chi considera solo quella in latino la «vera Messa», come se le Messe nelle lingue «vernacole» decise dal Concilio Vaticano II, celebrate in italiano come in tutte le altre lingue del mondo, fossero delle deviazioni dalla tradizione.
Il Papa, a tal proposito, scrive: “È per difendere l’unità del Corpo di Cristo che mi vedo costretto a revocare la facoltà concessa dai miei predecessori. L’uso distorto che ne è stato fatto è contrario ai motivi che li hanno indotti a concedere la libertà di celebrare la Messa con il Missale Romanum del 1962”.
Papa Francesco spiega che la decisione nasce da ampie consultazioni svolte negli anni scorsi per verificare l’attuazione della “Summorum pontificum” che, scrive, “hanno rivelato una situazione che mi addolora e mi preoccupa, confermandomi nella necessità di intervenire. Purtroppo l’intento pastorale dei miei Predecessori, i quali avevano inteso ‘fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente’, è stato spesso gravemente disatteso. Una possibilità offerta da san Giovanni Paolo II e con magnanimità ancora maggiore da Benedetto XVI al fine di ricomporre l’unità del corpo ecclesiale nel rispetto delle varie sensibilità liturgiche è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa e ne frenano il cammino, esponendola al rischio di divisioni”.
Da qui la decisione di abrogare ogni disciplina precedente, e regolamentare, caso per caso, tramite la responsabilità dei vescovi diocesani, la possibilità di concedere in via straordinaria la celebrazione della messa spalle al popolo, secondo il messale pre-conciliare del 1962. “I presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del presente Motu proprio, che intendono celebrare con il Missale Romanum del 1962, devono inoltrare formale richiesta al Vescovo diocesano il quale prima di concedere l’autorizzazione consulterà la Sede Apostolica”, sancisce Francesco.
Finisco con un tema di Amoris Laetitia, che è quella dell’immagine materna di una Chiesa dove “la realtà è superiore all’idea”, e dove vige un “empirismo cristiano” che “non ama le mediazioni” di una “Chiesa burocratizzata”, ma che offre la sua testimonianza fondata su “un’esperienza viva della fede”.