Consulta sul potere discrezionale del magistrato di sorveglianza: Forse pochi ricordano che l’origine del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso è geneticamente collegato alla memoria di Pio La Torre, trucidato barbaramente in un agguato mafioso (di cui fu vittima anche il suo stretto collaboratore Rosario Di Salvo) il 30 aprile 1982, prima che la legge istitutiva di questo e altri reati fosse definitivamente approvata.
L’art. 416 bis C.p., steso materialmente da Pio La Torre, (https://archiviopiolatorre.camera.it/l-impegno-parlamentare-nazionale/legge-rognoni-la-torre ) valorizzava le sue intuizioni dando nuovo, eccezionale impulso, con strumenti assai incisivi, all’inedito potere di svolgere accertamenti patrimoniali e tributari mirati, colpendo Cosa nostra nei suoi vitali interessi economici definendo e approfondendo al meglio il profilo di pericolosità delle condotte associative cosiddette “qualificate” dal metodo mafioso.
Proprio sul concetto di pericolosità (http://www.osservatoriomisurediprevenzione.it/giurisprudenza-della-suprema-corte-di-cassazione/ ) si fonda buona parte della legislazione preventiva con ampi spazi di declinazione all’interno di un percorso logico-giuridico, ancora in queste ore attualissimo, che dalla valutazione della condotta si sposta al piano della prognosi di pericolosità in un non facile e non sempre sereno dualismo. Strumenti principali di giudizio per il giudice sono le prove e, per il giudizio di prevenzione, le presunzioni. La “presunzione”, ipotesi in cui la legge risale, in via logico-deduttiva, da un fatto noto ad uno ignoto, è, per l’appunto, la keyword delle ultime ore.
Le presunzioni si dividono in: semplici e legali (https://www.brocardi.it/dizionario/3175.html ) Le prime sono regole di giudizio lasciate alla libera valutazione del giudice che ammette solo presunzioni gravi, precise e concordanti in quanto deduzioni in ordine a fatti non provati. Corrispondentemente pesa, in capo all’accusato, l’onere di una prova “tanto piena” da vincere la gravità, la precisione e la concordanza della valutazione presuntiva del giudice. Le presunzioni legali, al contrario, sono stabilite dalla legge e si distinguono in assolute, che non ammettono alcuna prova contraria, e relative che determinano l’inversione degli oneri probatori e la prova contraria. La recente sentenza della Corte Costituzionale (https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20191023170305.pdf ), al netto dei toni trionfalistici per la compiuta conquista di civiltà «(…) in grado di restituire dignità al compito valutativo proprio della magistratura di sorveglianza» introduce, dichiarando incostituzionale il comma 1 dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, la “presunzione (legale) relativa”.
Il magistrato di sorveglianza sarà così vincolato al giudizio di “pericolosità sociale” del condannato superabile dalle relazioni del carcere, di cui alle osservazioni scientifiche e comportamentali, nonché, dalle informazioni e i pareri di varie altre autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Un magistrato, in un certo senso, “sotto tutela” e, pur se nella valutazione caso per caso, in forza della presunzione relativa, vincolato dai pareri e dalle informazioni ricevute da altri organismi. Il tema non è di poco conto, perché su cosa giudica il magistrato di sorveglianza?
La magistratura di sorveglianza può operare con discrezionalità, il che si spiega per l’oggetto della sua cognizione legata, soprattutto, alla pericolosità del condannato e alle prospettive di recupero sociale. Traducendosi in un giudizio prognostico riguardante un futuro comportamento, non ha però quel rigore e quella consistenza che ha invece un accertamento sul fatto. Il magistrato di sorveglianza giudica sull’autore del reato e non sui fatti per i quali quest’ultimo è stato definitivamente condannato. La discrezionalità, caratteristica insita nella funzione di tutti i giudici, nella sorveglianza spicca in misura maggiore essendo attinente ad elementi più concettuali che materiali: richiede una attenta ponderazione di dati oltre che giuridici anche extragiuridici.
Notizie esterne, cioè, che tendono, nella gran parte dei casi, a presentarsi in modo decisamente confuso, poco chiaro e non lineare. Ma fino a dove può spingersi tale discrezionalità? Entro la presunzione relativa (ex lege) di pericolosità sociale del detenuto ex art. 416 bis C.p., ci dice la Corte Costituzionale.
Spetterà, quindi, al condannato ad un ergastolo cosiddetto “ostativo”, rappresentare, per ottenere un permesso premio, tutti i possibili elementi che possano dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la sua condotta è ormai informata ad un pieno, determinato, volitivo e consapevole allontanamento dalla consorteria criminale permettendo di porre in essere, in una prognosi negativa di ripetibilità, la rielaborazione e l’allontanamento della parte identitaria del sé dal super ego criminale (http://www.stampoantimafioso.it/wp-content/uploads/2013/04/Tesi-Isabella-Senatore.pdf) della associazione mafiosa e dal vincolo di appartenenza spesso coincidente ‒ si pensi alla ’Ndrangheta, al proprio gruppo familiare. Di questo dolorosissimo compiuto distacco si dovrà fornire evidenza, per dare fiducia al detenuto, con il suffragio delle relazioni delle varie autorità. Non sarà, dunque, facile, vincere la presunzione relativa. Il tutto mentre campeggia il pubblico ministero con un ruolo sia propulsivo sia di controllo sul magistrato di sorveglianza, tenuto a comunicargli i provvedimenti adottati in vista di eventuale reclamo. Funzione di controllo da esercitare, da oggi e in avanti, si auspica, date le recenti modifiche giurisprudenziali, con sempre maggiore cautela e fine preparazione professionale.
E i canoni ermeneutici cui ispirarsi sono ben noti.
Il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso è un reato di pericolo presunto, perché il bene giuridico tutelato, l’ordine pubblico, deve ritenersi minacciato dall’esistenza stessa di un vincolo associativo e dalla sua stabile permanenza. Scaturisce da ciò l’esigenza di dare contenuto tipico e concretezza a queste fattispecie, in modo da legittimare la presunzione di pericolo e l’anticipazione di tutela di un bene giuridico difficilmente afferrabile. E ciò senza mai abbassare la guardia in ogni fase del procedimento penale. A maggior ragione, in quello di sorveglianza.
Ma attingere al solo concetto di pericolosità oggi ormai non basta più, forse occorre guardare al concetto di rischio e, segnatamente, al concetto di rischio applicato al precetto penale. Sfortunatamente in dottrina non si è ancora pervenuti ad una soddisfacente collocazione e definizione delle nozioni di rischio e di pericolo. In particolare, non si è riusciti, fino ad oggi, a fornire una risposta condivisa al quesito se si tratti di sinonimi ovvero se possa ipotizzarsi una differenza tra le due ipotesi. Gli studiosi sono pervenuti a risultati non solo insoddisfacenti ma addirittura contradditori (È questa la definizione di G. Marini, “Rischio consentito” e tipicità della condotta. Riflessioni, in Scritti in memoria di Renato Dell’Andro, Bari, 1994, vol. II, 539 ss. (v. in particolare p. 542 ss). Per la soluzione quantitativa propendeva anche C. Perini, Prospettive del concetto di rischio nel diritto penale moderno, Garbagnate Milanese, 2002, 17 (n. 39) ma l’Autrice, nel più recente saggio Il concetto di rischio nel diritto penale moderno, Milano, 2010, sembra oggi orientata a ritenere sinonimi rischio e pericolo – v. p. 42, 63, 371 ss. – ). E se nell’esercitare la funzione di controllo sulle scelte del magistrato di sorveglianza, il Pm applicasse, in quanto estensibile, perché aspecifico, la definizione normativa di rischio e pericolo contenuta in altre norme, per esempio, quelle di diritto ambientale? Laddove il “pericolo” è: «la proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni». E il “rischio” è: «la probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione». Possiamo, quindi, ragionevolmente aspettarci che le categorie cui assisteremo d’ora innanzi, saranno volte ad una sempre maggiore flessibilizzazione delle figure classiche di reato?
Si direbbe di sì. Infatti, se, in prima battuta, dalle relazioni scientifiche fornite al magistrato di sorveglianza, conseguenti all’osservazione del comportamento del detenuto “ostativo” il contro nel merito, e ancor di più sulla legittimità, sarà istituzionalmente limitato alla verifica se il magistrato abbia adeguatamente e logicamente motivato, in particolare, sulla plausibilità della soluzione scientifica accolta e sulla non plausibilità di quella respinta ovvero sulla plausibilità delle massime di esperienza applicate. E però, e questo è proprio il punto dolente: se entrambe le contrapposte tesi fossero “plausibili” non potrebbe il giudice della sorveglianza – pur condividendone una e motivando adeguatamente sulla sua scelta – fondare una decisione favorevole per la concessione del beneficio del permesso premio su questo presupposto. Sarebbe l’assunzione del rischio a carico della comunità intera, che dovrebbe riaccogliere il condannato ostativo, in misura troppo alta in quanto non superata la soglia del ragionevole dubbio. Quale sarà allora il criterio che il giudice di legittimità seguirà per valutare (non l’attendibilità del sapere scientifico introdotto nel processo: non è il suo compito) se il giudice di merito/sorveglianza abbia logicamente motivato sull’attendibilità di queste conoscenze? Ecco che il principio di precauzionalità risolverebbe l’assunzione del rischio al di là di qualsiasi congettura. Ma, possiamo pensare che pericolosità e rischio possano davvero annullarsi nella precauzionalità, concetto di diritto europeo di derivazione tedesca?
Non è però questo il tema in discussione.
Il tema in discussione è la prevedibilità nel senso di ripetibilità della condotta che è tema ben diverso dal principio di precauzione.
Si è affermato che la prevedibilità dell’evento «è irriducibilmente diversa dalla mera congettura di pericolosità che la scienza non può né fondare né smentire. L’una consiste in una valutazione di verosimiglianza, l’altra si risolve in uno dei tanti giudizi di non impossibilità che si possono formulare in situazioni d’incertezza. Tra la sponda della verosimiglianza e quella della non impossibilità non vi sono ponti, ma un rapporto di radicale alterità ( AA.VV. “Il diritto penale di fronte alle sfide della “società del rischio” Un difficile rapporto tra nuove esigenze di tutela e classici equilibri di sistema” Giappichelli Ed.2017)».
In un condannato all’ergastolo per 416 bis C.p. quanto prevedibile potrà essere, allora, la sua recidiva?
E quanto la sua esclusione?
Daniela Mainenti è Docente di diritto processuale penale
Componente comitato scientifico Eurispes
Responsabile Nazionale Postgraduate Fondazione Ymca Italia