A cosa serve raccontare dopo tanti anni, la storia di un importante esponente comunista ceco fatto fuori dai suoi stessi compagni per ordine di Stalin. La risposta la lascio ai lettori. Mi riferisco al capo comunista Rudolf Slanskij, che aveva scalato la gerarchia comunista cecoslovacca fino a diventare segretario del partito e poi vice-presidente del Consiglio dei ministri, caduto in disgrazia nel luglio del 1951. Vittima delle purghe staliniane, fu impiccato il 20 novembre 1952, dopo un processo-farsa in cui si auto-accusò dei peggiori crimini contro il regime.
La storia viene raccontata da sua moglie Josefa Slanska, in un breve saggio di 160 pagine, «Slanskij 1952. Processo & impiccagione di un gerarca comunista», Edizioni Ares (2010). La prima edizione è uscita nel 1969, col titolo, “Morte a Slanskij”. L’opera è curata da Curzia Ferrari, la prefazione è di Sergio Romano.
Il libro raccoglie le strazianti memorie della vedova di Slanskij, con le varie brutalità di cui venne sottoposta lei e i suoi figli dopo l’arresto dell’esponente comunista che era stato fino a quel momento uno dei più autorevoli feudatari dell’Urss.
Al libretto sono allegati anche gli atti e le testimonianze del processo. Si tratta di documenti pubblicati per la prima volta, durante la cosiddetta “Primavera di Praga”, sono importanti perchè favoriscono una riflessione culturale, politica e morale su questa terribile storia, che seppur indirettamente, secondo Romano, coinvolgeva anche il partito comunista italiano.
Infatti, per l’ex ambasciatore, «nessuno, fra i membri e gli amici del Pci, aveva voglia di vedersi costretto a spiegare perchè la fedeltà all’Urss avesse prevalso sui sentimenti di indignazione e riprovazione che quelle vicende avrebbero dovuto suscitare nei loro animi. Anche per questo un libro di Josefa Slanska merita di essere ricordato, letto e discusso».
Tuttavia per qualche mese sino all’invasione sovietica dell’agosto 1968, le rivelazioni sulle purghe, in particolare il processo Slanskij, furono al centro del dibattito sul cosiddetto “socialismo dal volto umano”, che agitava la Cecoslovacchia di Dubcek. Dibattito ridotto al silenzio dopo l’intervento “amichevole” del Patto di Varsavia, e quindi con la “normalizzazione” del Paese.
Per comprendere l’assassinio di Slanskij, occorre fare riferimento a qualche anno prima, quando il maresciallo Tito, venne accusato da Stalin di aver tradito i principi del marxismo-leninismo, adottando posizioni deviazioniste antisovietiche. La Jugoslavia diventa per Stalin una specie di Paese eretico, scismatico. Tanto che per un momento si pensò di far rientrare i compagni titini all’ortodossia staliniana con l’invasione dell’Armata Rossa. Alla fine si pensò che era meglio isolare Tito e compagni deviazionisti.
Pertanto in questi anni si replicarono le grandi purghe che Stalin aveva promosso alla fine degli anni trenta. Così in tutti i Paesi dell’Est, si diede la caccia al “responsabile” di deviazionismo e ai suoi complici. Questi processi, scrive Curzia Ferrari, «servivano a mettere fuori causa i presunti nemici di Stalin che si annidavano all’interno del partito […]». Tra il 1948 e il ’52, scardinare ogni revanchismo nella zona sovietica Mitteleuropa fu un obiettivo primario. Alcuni degli imputati «preferirono uccidersi anziché assoggettarsi all’umiliazione di un giudizio truccato». Mosca mandò in ogni capitale dell’Est, i propri «“missi dominici”: una banda di arroganti, imperiosi, decisi a ignorare sprezzatamente le obiezioni e le reticenze degli interlocutori locali». Gli atti di accusa furono le stesse delle grandi purghe: gli imputati furono accusati di spionaggio, collusione con i nemici di classe, con i Paesi capitalisti, con Tito, con l’intelligence americana, britannica. Infine l’atto più grave di accusa per il marxismo-leninismo: il trotzkismo. Questo era un catalogo di accuse che veniva rovesciato addosso ad ogni imputato, che addirittura doveva confessare senza riserve di aver commesso. «Il risultato fu raggiunto – scrive Romano nella prefazione – con una combinazione di mezzi persuasivi: le droghe, la tortura, la minaccia di rappresaglie sui membri della famiglia e persino la richiesta di un ultimo sacrificio sull’altare del partito e della rivoluzione».
Per chi conosce la Storia, è la stessa tecnica usata dai rivoluzionari giacobini nella Rivoluzione Francese. C’è un interessante saggio scritto da Augustin Cochen, “Meccanica della Rivoluzione”, dove lo studioso francese dimostra che la macchina rivoluzionaria alla fine stritola gli stessi macchinisti, è una tecnica che si ripete sempre in tutte le rivoluzione degli ultimi due secoli.
Ritornando all’Urss, la diabolica tournèe giudiziaria degli sgherri di Stalin inizia in Ungheria, dove come vittima fu scelto il ministro degli Esteri, Lazlo Rajik, poi si passò alla Bulgaria, qui l’agnello sacrificale, fu Traico Kostov, in Polonia viene processato Wladislaw Gomulka. Anche se quest’ultimo si salvò, perchè nel frattempo era morto Stalin.
Ritornando al processo a Slanskij, Sergio Romano precisa che il gerarca ceco non era certamente uno stinco di santo. Le memorie di Josefa, non fa cenno al colpo di Stato del 1948, dove Slanskij fu responsabile di numerose condanne a morte e della carcerazione di circa 25.000 persone. Nonostante questo curriculum funesto, Stalin, scelse di processarlo e di mandarlo a morte.
Per accusarlo di alto tradimento e quindi per arrestarlo, secondo lo scrittore Francois Fejto, fu confezionata una lettera dai servizi segreti cecoslovacchi, dove si metteva in luce che il segretario del Pcc stava preparando la fuga in Occidente, insieme a una organizzazione di ufficiali cecoslovacchi chiamata Okapi. Una lettera che poi fu trasmessa a Mosca, che affidò il compito di processare Slanskij ad Anastas Mikojan, membro del Politbjuro.
Slanskij venne arrestato dopo un pranzo il 23 novembre 1951, episodio ben descritto dalla moglie nelle sue memorie. Il processo non fu soltanto una “purga” comunista, ci tiene a precisare Romano, ma fu anche per volontà di Stalin, un processo al sionismo. Infatti Slanskij era ebreo, così come molti dei protagonisti dei processi nei vari Paesi comunisti. Stalin non vedeva di buon occhio il cosmopolitismo ebraico, temeva di essere divorato da questo tarlo.
Sembra che nei confronti degli ebrei stava preparando una sorta di “soluzione finale”, fortunatamente, morì prima di metterla in pratica.
DOMENICO BONVEGNA
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