QUEI PENSATORI CONTRORIVOLUZIONARI CHE HANNO CONDANNATO I SACRI PRINCIPI DELL’89

Nomi come Edmund Burke, Joseph De Maistre, De Bonald, von Haller, sentirli nominare, che cosa rievocano, nella maggioranza di chi legge? Temo poco, tranne per gli specialisti. Si tratta dei pensatori cattolici di fine Settecento e inizio di Ottocento che hanno reagito alla rivoluzione Illuminista e quindi alla madre di tutte le rivoluzioni: quella francese dell’89. Riccardo Pedrizzi, ex senatore della Repubblica, eletto nelle file di Alleanza Nazionale, ha pubblicato un interessante e agevole volume, “Rivoluzioni e dintorni. (dalle prime reazioni all’illuminismo alla controrivoluzione cattolica), Editoriale Pantheon (Il libro può essere richiesto direttamente all’autore, Piazza Roma n.4 – 04100 Latina – Tel. 0773/480553 Fax: 0773/412412 www.interventonellasocieta.com   info@riccardopedrizzi.it).

Quello di Pedrizzi è uno studio, scrive nell’introduzione Massimo Viglione, “sul pensiero controrivoluzionario in sé, o comunque sugli autori che condannarono l’evento Rivoluzione Francese, e in particolare il fenomeno del giacobinismo totalitario, si presenta sempre come una nuova e importante acquisizione per il mondo della cultura politica”.

Certo non mancano le pubblicazioni sul tema, soltanto che questa di Pedrizzi è unica così come è stata composta: un agile compendio sintetico sui pensatori controrivoluzionari più importanti. Sono tanti i libri scritti sulla Rivoluzione Francese, purtroppo la maggior parte sempre a celebrarla come l’epoca del trionfo della libertà e dell’uguaglianza sul mondo dell’ingiustizia e della superstizione. Per la verità in occasione del bicentenario, sono uscite opere cosiddette “revisioniste”, intese a rimettere al loro posto, la vera natura della Rivoluzione scoppiate in Francia.

Un grande eco ha avuto l’importante affollato convegno internazionale organizzato in occasione del bicentenario a Roma da Alleanza Cattolica. Quello della revisione dei libri di testo nelle scuole è un problema fondamentale, per Viglione, perché è proprio qui, che, “si formano le menti e nelle quali continuano ad imperversare libri di storia che dedicano decine di pagine e fantasiose stragi inquisitoriali o controriformistiche ma dimenticano quelle, ben reali al contrario, giacobine in Francia, in Vandea e in Italia […]”.

Tuttavia, libri su De Maistre, Burke, ce ne sono, anche di seri, ma la gente comune continua ad ignorarli, o magari a “crederli autori “retrivi”, reazionari, patetici nel loro rifiuto del sol dell’avvenire rivoluzionario, liberale o socialista che sia”.

Il libro di Pedrizzi è suddiviso in tre parti: la prima è un’introduzione storico-concettuale alla Rivoluzione Francese; la seconda affronta lo specifico dei singoli autori trattati; la terza è composta da interviste che l’autore ha fatto a importanti storici e studiosi in occasione del bicentenario.

Nel primo capitolo, Pedrizzi, chiarisce che il germe rivoluzionario non si è manifestato all’improvviso, ma aveva avuto il suo lungo periodo di incubazione in un ‘humus’ particolarmente favorevole, che si è creato lentamente, ma inesorabilmente a partire dai secoli precedenti. Come minimo occorre partire dalla cosiddetta Riforma Protestante, e poi per arrivare fino alle società di pensiero, i famigerati clubs giacobini. Mentre le dottrine controrivoluzionarie si diffusero subito dopo la Rivoluzione francese e sostanzialmente si affermano intorno al periodo della “Restaurazione”. Naturalmente si genera la discussione su quale tipo di monarchia sostenere: quella assoluta, dispotica, aveva bisogno di radicali riforme. Infatti, “nessun autore e nessun politico conservatore si presentava come un gretto difensore dello status quo, ma tutti ammettevano la necessità di intervenire con delle riforme e proponevano più o meno radicali aggiustamenti nell’organizzazione sociale”.

L’obiettivo principale dei rivoluzionari era quello di rifondare completamente la società e ricostruirla ex novo, in particolare, i rapporti tra i suoi membri. Per raggiungere questo scopo, hanno varato a valanga molteplici provvedimenti legislativi, a ripetizione hanno promulgato costituzioni, diffondendo un linguaggio uniforme, simboli, hanno proposto feste e cerimonie, con un unico abbigliamento.

Il risultato più importante della Rivoluzione, secondo Pedrizzi fu quello di aver creato una cultura politica completamente nuova, inventando l’ideologia. “E fu questo il sistema di idee elaborato a tavolino e nelle società di pensiero che rappresentò il grimaldello che scardinò il sistema tradizionale e che impose alla società un radicale cambiamento”.

Infatti, i rivoluzionari erano convinti che sia il sociale che il politico potessero in qualsiasi momento essere riformulati e ridefiniti, “prescindendo da vincoli naturali, da tradizioni e consuetudini consolidate, da norme vincolanti di tipo religioso e trascendente”. Per Pedrizzi, sostanzialmente, “tutti gli sforzi furono diretti a modificare la realtà sociale, plasmandola, omologandola, orientandola, organizzandola, in una parola, classificandola secondo un progetto ideologico ‘pre-elaborato’ e secondo una visione del mondo e della vita ‘pre-costituita’”.

Per questo motivo i capi della rivoluzione hanno capito che per essere efficaci avevano bisogno di “pratiche simboliche, da un linguaggio univoco, da immagini che colpissero la fantasia della gente, da gesti ripetitivi condizionanti, da riti civici e laici sostitutivi delle funzioni religiose”.

In questi frangenti nasce la propaganda politica, l’indottrinamento ideologico, il condizionamento psicologico delle masse; nasce sostanzialmente tutto quello che poi un secolo dopo, sarà utilizzato dagli Stati totalitari, in particolare marxisti.

I rivoluzionari francesi, in particolare i giacobini hanno bisogno di radere al suolo tutti gli ostacoli, in vista della creazione dell’”uomo nuovo” e dell’”ordine nuovo”.

Ripetevano addirittura certe parole, che man mano acquistarono un carattere magico, come ancien regime, finché subirono l’ostracismo.

“Nacque – scrive Pedrizzi – un linguaggio del tutto nuovo al servizio del progetto politico rivoluzionario, che aveva lo scopo unico di riformare la natura umana, di rendere migliore la società, di rigenerare la nazione, di trasformare i sudditi in cittadini, gli schiavi in uomini liberi, gli sfruttati in repubblicani del nuovo Stato”.

Pedrizzi sintetizza egregiamente i cambiamenti apportati dal nuovo Stato repubblicano, in particolare, la funzione manipolatoria delle masse, attraverso i simboli come l’albero della libertà, la dea ragione, i berretti frigi, le coccarde. E poi tutti quei simboli massonici. Naturalmente sono spariti, tutti i simboli cristiani.

Tutto del passato veniva messo in discussione, bisognava rinnegare tutto ciò in cui si aveva creduto, cancellare le tradizioni e perfino le abitudini. Del resto, quello che stanno cercando di imporre i movimenti del “cancel culture” americane.

È stata programmata un’opera pedagogica, o meglio sarebbe scrivere di plagio collettivo, dove un ruolo fondamentale sarebbe svolto dalla scuola.

Il terzo capitolo viene occupato per descrivere la figura dei cosiddetti “liberi muratori” e dei “Sanculotti”. Pedrizzi in questa descrizione si fa aiutare dalla pregevole opera di Augustin Cochin, “Meccanica della rivoluzione”.

Per Cochin, la Rivoluzione era il prodotto di un’azione sistematica e continua che era durata almeno quarant’anni e che aveva generato un uomo del tutto nuovo: nasceva così, l’”homo ideologicus”. Cochin in quest’opera rivoluzionaria di cambiamento totale della società, portata avanti, precisava, sempre da minoranze, oltre ai vari clubs partitici, vedeva il coinvolgimento attivo delle logge massoniche.

Mentre nel quarto capitolo, si descrive l’opera di scristianizzazione della Francia, in quei dieci anni intensi di esplosione rivoluzionaria. C’è un vero e proprio assalto alla Religione. I Papi, gli uomini di Chiesa avevano più volte lanciato l’allarme, mettendo in guardia i fedeli cattolici. I principi dell’89 servono a rovesciare la religione cattolica, scriveva Pio VI.

Il quinto e il sesto capitolo sono dedicati al genocidio Vandeano, scientificamente organizzato dai democratici del Comitato di Salute Pubblica di Parigi. Qui Pedrizzi racconta come è stato scoperto questo genocidio, tenuto nascosto dalla storiografia ufficiale per ben duecento anni e soprattutto intervista chi ha portato a conoscenza del genocidio. Reynald Secher, il professore dopo accurate ricerche, ha prodotto due pamphlet: “Le genocidie franco-francaise. La Vendee Vegé” e “Vendee 1789-1801”, pubblicati in Italia dalla mitica casa editrice Effedieffe, di Gianfranco De Fina. Ricordo, ero presente al Convegno romano, “Contro l’ottantanove, miti, interpretazioni e prospettive”, qui tra i relatori, c’era anche Secher, applauditissimo ha presentato le sue ricerche sulla Vandea. Sarei tentato a soffermarmi sugli sviluppi della sua ricerca, che purtroppo ancora non ha avuto dopo decenni quella giusta collocazione, almeno per quanto riguarda l’Italia.

Il settimo capitolo, evidenzia l’orientamento della restaurazione dopo i dieci anni di rivolgimenti rivoluzionari. Si è snodata su due piani, scrive Pedrizzi. Quello politico, con una condotta “reazionaria”; l’altro dottrinale, mirante a dare dei contenuti ad una valida battaglia controrivoluzionaria ed antilluminista.

Sul piano politico, la restaurazione fallì, perché, il più delle volte e salvo poche eccezioni, fu affidata, “a gente di corte e di salotto che non aveva più alcuna volontà di vittoria; oppure ministri di polizia, che intesero quell’immane scontro, talora, di forze occulte, di concezioni della vita e del mondo, come dei semplici casi di ‘polizia’ dei rispettivi stati: oppure, ancora, ad ecclesiastici e diplomatici che si preoccupavano solo di mantenere in Europa ‘un certo equilibrio’”.

Comunque sia per Pedrizzi, il fatto determinante del fallimento di “restaurazione”, è che gli stessi sovrani conquistati dalle nuove dottrine, retaggio napoleonico, non rinunciarono a “quell’aumento di autorità, più apparente che reale, che proveniva dalla unificazione amministrativa napoleonica”. In buona sostanza, “le Restaurazioni del 1815, pur condannando le dottrine astratte della Rivoluzione, ne mantennero la coeva legislazione e poggiarono su un equivoco esizionale non riposando in principi e dottrine ben definiti. I sovrani vivono ormai staccati dalla società per effetto del soverchio accentramento e sono esposti alla violenza di ogni sedizione”.

Pedrizzi è abbastanza esplicito, è mancata un’unità di impostazioni, comunione d’intenti e di obbiettivi necessari per creare un fronte, con un’anima unitaria, che non si limitasse a ‘reagire’ ma anche e soprattutto a contrattaccare in nome di valori eterni ed assoluti e non invece, come accade, in nome solamente di una gretta conservazione dello status quo”. Sembra di osservare l’Europa politica di oggi.

Sul piano dottrinale per Pedrizzi si è riusciti a raggiungere, seppure temporaneamente, un equilibrio culturale, e ciò è stato possibile proprio perché vi furono alcuni uomini all’altezza come De Maistre, il Principe di Canosa, lo stesso Metternich, De Bonald.

Tuttavia, si assiste a situazioni paradossali come quelle in cui questi difensori della Tradizione e della Legittimità, è capitato al Principe di Canosa, al ministro degli esteri di Casa Savoia, Clemente Solaro della Margarita, non furono ascoltati o addirittura “perseguitati e condannati dai rispettivi sovrani, che o già erano scesi a patti con la sovversione oppure non si rendevano conto che, anche senza volerlo, avevano recepito le idee di coloro che si prefiggevano di sconfiggere, trasformando, ad esempio,  i loro Stati in veri e propri regimi assolutistici e burocratizzati apportatori, inevitabilmente, di nuove e più violente ribellioni”.

L’unica vera e giusta impostazione della Restaurazione doveva essere quella di una Monarchia tradizionale, come ha ben auspicato lo scienziato e filosofo politico spagnolo, Francisco Elias de Tejada. Sostenere, “una monarchia per reggersi ha bisogno di corpi e potestà intermedie come la nobiltà, il clero, i quali venendo distrutti o indeboliti danneggiano la stessa monarchia creando un vuoto tra il sovrano ed il popolo e rendendo lo Stato indifeso di fronte alle insurrezioni”. Si può concludere secondo Pedrizzi, che “la caratteristica propria di tutta la teoretica controrivoluzionaria è questa: essere in contrasto sia con il rivoluzionarismo giacobino sia con il dispotismo illuminato”.

Nell’ottavo e nel nono capitolo l’autore affronta il pensiero culturale del movimento del montanismo, nato in Francia e poi della restaurazione vista dallo storico Adolfo Omodeo. La seconda parte del libro “Rivoluzioni e dintorni” è dedicata agli autori controrivoluzionari, cominciando da Burke e finendo con Alessandro Manzoni. Quest’ultima una figura aggiunta da poco al campo controrivoluzionario per via di un suo saggio poco noto, anche qui tenuto nascosto dalla congiura degli storici ufficiali, “La Rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859”.

Il testo di Pedrizzi si chiude con l’appendice delle “interviste sulla rivoluzione”. La prima ad Augusto Del Noce, poi a Jean Dumont, a Marco Tangheroni a Secher. Tranne quest’ultimo, tutti scomparsi, ma non per questo le interviste risultano poco efficaci, attuali e profetici.

DOMENICO BONVEGNA

domenico_bonvegna@libero.it